Il mio, invece, era sempre rimasto in silenzio: segnato dalla flebile linea cuneiforme di normalità.

«Ti arrendi così facilmente?» le parole di Sander bruciarono più del dovuto. Non ne potevo davvero più. Non mi stavo arrendendo, non volevo, eppure... Boccheggiai ulteriormente, non riuscivo neanche a proferire parola, ma cosa avevo combinato? Nulla.

«Non... Non ce la faccio» ammisi stremata chiudendo le mani in pugni e accasciandomi ulteriormente verso il pavimento. Non mi ero mai sentita così piccola e insignificante.

«Stai sbagliando approccio: ciò che hai fatto è stato solo torturarti su come riuscire nell'impresa, ti sei stancata solo con il pensiero, ma devi smettere di farlo e agire di conseguenza. È il più primordiale degli stimoli. Non ci sono leggi metafisiche: o senti il potere che ti scorre nelle vene o non avverti nulla. Hai usato tutta la tua energia a vuoto. Quindi forza, in piedi e riproviamoci ancora!»

«È difficile!» mi giustificai. Ogni parola risultava una mera consolazione per la mia incapacità.

«Certo che lo è! Come pensi abbiamo iniziato tutti? E credimi, nessuno ha mai avuto il tuo potenziale!» Levai lo sguardo verso l'alto. Non poteva dire ancora così dopo quello spettacolo ridicolo. Mi stavo umiliando: non poteva far finta di nulla. Feci presa su un ginocchio per sollevarmi.

«Io non ho nessun tipo di potenziale!» urlai. Non volevo rimanere un istante di più alla presenza di quell'uomo. Come poteva credere lui in me, se neanche io lo facevo? Era solamente patetico. A grandi falcate oltrepassai la porta con l'epigrafe romana ignorando tutto ciò che Sander provò a dire. Mi richiamò così tante volte a gran voce che feci fatica a contarle.

Aveva continuato a urlare nonostante non fossi più a portata di orecchio. Non poteva seguirmi, con quella gamba non poteva farlo. Il mio nome rimbombava per tutta l'Accademia e nella mia mente. Sembrava quasi di poter leggere il mio epitaffio nel mausoleo di famiglia "Delaney Holland, l'incapace. Non riuscì a proteggere suo padre, non riuscì a proteggere sua madre, non riuscì a proteggere suo fratello e non riuscì a proteggere nemmeno sé stessa."

Corsi nella mia camera e, dopo aver aperto la porta tramite il bracciale, crollai a terra in un pianto liberatorio. Strinsi i pugni sbattendoli più volte sul pavimento. Presa dalla frustrazione iniziai ad arrancare verso un punto più stretto: indietreggiando fino a toccare con le spalle la porta di lega e facendomi lentamente scivolare. Raccolsi le ginocchia al petto rimanendo in quello stato catatonico per chissà quanto tempo, ma almeno fino al termine della giornata.

Neanche quando Kit passò per sapere come stessi osai rispondere. Semplicemente rimasi a osservare come la stanza sprofondava lentamente nel buio. A New York era calato il sole.

In quell'istante balenò della mia mente l'idea più malsana di tutte. Magari New York faceva ancora per me... Forse Boston, Los Angeles, Parigi o qualsiasi altra città del mondo sarebbe stata adatta a me. Nessuno avrebbe potuto trovarmi o farmi del male e avrei avuto il mio nuovo inizio. Non volevo rimanere oltre in quella struttura e forse la soluzione era proprio davanti i miei occhi.

Alzai il busto quel tanto per inquadrare quel rettangolo olografico: sarei potuta scappare da una finestra. Dovevo semplicemente trovarne un'aperta: se fossi stata fortunata non mi avrebbe portata troppo lontano da casa mia. Dentro di me stava crescendo la consapevolezza che quel posto non fosse adatto a preservare i miei sentimenti. Sentivo di dover cercare una via di fuga ad altra sofferenza e responsabilità.

Avrei trascinato James con me: lui avrebbe capito.

Uscii dalla mia stanza facendo ben attenzione a non essere vista. Sembrava tutto troppo silenzioso e deserto per i miei gusti, complice, probabilmente, l'ora abbastanza tarda. Passai davanti alla stanza del mio fratellastro, sfiorando con le dita il suo nome inciso.

Udii delle voci provenire dal piano inferiore. Mi avvicinai al parapetto quel tanto per osservare i colpevoli di tale rumore. Dall'alto del balconcino intravidi una coppia di ragazzi tenersi per mano e incamminarsi verso la zona est dell'Accademia. Probabilmente in direzione della mensa. Se non avessi voluto essere scoperta sarei dovuta passare per una zona poco frequentata. La biblioteca si trovava nell'ala ovest del complesso.

Aspettai pazientemente che i due ragazzi uscissero dal mio campo visivo. Intrapresi le scale scendendole una a una fino a portarmi, colonna dopo colonna, verso la maestosa porta intarsiata d'oro e i cui tralci erano d'abete.

«Ce l'hai quasi fatta, Delaney» sussurrai a me stessa. Spinsi con tutte le mie forze quelle ante. Dovevo essere veloce se non avessi voluto essere scoperta. Mi convinsi che non ci fosse nessuno che potesse cogliermi in flagrante. Difatti, quando entrai, ad accompagnare i miei passi c'era solo l'eco del grande locale. Eravamo io, migliaia di libri impolverati e le più stravaganti tecnologie del ventitreesimo secolo, a essere circondati dal buio della sera.

Percorsi diversi metri prima di ritrovarmi nel punto esatto in cui ero comparsa dal nulla qualche giorno prima. Osservai in tondo la stanza ovale, circospetta. Ma nonostante i miei occhi non mettevano in mostra niente di strano che non avessi già visto, avvertivo uno strano senso di irrequietezza. E nel più totale silenzio avvertii un "click".

«C'è qualcuno?» indietreggiai nella direzione opposta a quella del suono. Ma a rispondermi fu solo la mia stessa voce dispersa per tutta la sala. Serrai i pugni convincendomi che non avrei dovuto farmi prendere dall'agitazione. Gli unici punti di luce erano le lampade al plasma che volteggiano sopra il mio capo, seguendo i miei movimenti, ma senza mai aumentare di intensità. Se mi fossi mossi ancora sarei stata presto inghiottita dall'oscurità.

Decisi di ignorare il mio presentimento avvicinandomi alle vetrate nel chiostro della grande biblioteca. Affrettai i miei passi uno dopo l'altro su per i gradini nella speranza che tirando, spingendo o manomettendo qualche cardine almeno una finestra si aprisse.

«E andiamo, ci sarà un punto da cui posso scappare!» ero esasperata. Ma proprio quando la speranza aveva quasi abbandonato il mio corpo la mia attenzione venne catturata da un portoncino alla mia sinistra, nascosto da una pila di libri e da un mappamondo ottocentesco. Mi avvicinai con cautela quel tanto per poter avvolgere con la mia carne il freddo metallo del pomello. Nella mia mente si era appena incuneata l'ipotesi che magari dietro quella porta si potesse nascondere la risposta ai miei problemi. A quel punto avrei dovuto solo dovuto girare la maniglia per scoprirlo.

Ma qualcosa mi bloccò.

*Clap* *Clap* *Clap*

Non ero mai stata sola.

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