capitolo sei

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Note autrici:

Buongiorno. Con una settimana di ritardo rispetto alla tabella di marcia che ci eravamo prefissate, vi pubblichiamo questo sesto capitolo per noi molto importante (lo diciamo per tutti i capitoli, ma è sempre vero). Speriamo di essere riuscite a rendere le emozioni che avevamo dentro, e in testa, e dappertutto, quando l'abbiamo pensato. Appena arrivate in fondo capirete il perché.

Okay, basta parlare. 

Vi lasciamo alla lettura.

Ci vediamo in fondo.

***

Alla fine l'avevo fatto per davvero: avevo prenotato il volo per Los Angeles.

Fortunatamente in quei giorni avevo uno stacco dalle riprese, che si era presentato al momento perfetto, e per ottimizzare i tempi, trovandomi ancora in Francia, avevo deciso di partire direttamente da Parigi. Un'ora e mezza di treno fino all'aeroporto e poi, da lì, sarebbe iniziato il viaggio vero e proprio.

Fu così che mi ritrovai con un borsone mezzo vuoto tra le mani e più di novemila chilometri da percorrere all'orizzonte. L'ansia, mista ad adrenalina, che mi scorreva dentro come fuoco liquido, portandomi a camminare agitato su e giù per la stanza, infilando indumenti a caso nel borsone per poi riposarli un attimo dopo, quando mi rendevo conto che non mi sarebbero serviti.

Ok, Harry, direi che è ora di darsi una calmata, se non vuoi consumare il pavimento.

Mi fermai, lasciando cadere a terra una maglietta nera alquanto anonima, e posai il capo contro l'anta dell'armadio, chiudendogli gli occhi e cercando di regolarizzare i battiti impazziti del mio cuore. Non la stavo prendendo bene. Affatto.

Respira. Non puoi dare di matto ancora prima di partire.

Provai a seguire il mio stesso consiglio, inspirando ed espirando un paio di volte, e sembrò funzionare. Sentendomi un po' meglio - o convincendomi che fosse così - mi abbassai per cercare una camicia che dovevo necessariamente portare con me.

Peccato che, dieci minuti dopo, persi di nuovo la pazienza.

Avanti, dove ti sei cacciata?

Avevo controllato tutte le grucce e setacciato tutti gli scomparti ma niente da fare: la camicia non c'era.

Imponendomi di non dare di matto ripetei la stessa azione, guardando più attentamente, pensando che magari potesse essermi sfuggita.

Ti prego, fa che non l'abbia lasciata a Londra.

Non erano molti i vestiti che avevo portato in quell'appartamento, abitandoci poco e niente, ma quello era un regalo di mia sorella e ci tenevo così tanto che non me ne separavo mai. Era quasi un gesto scaramantico la scelta di portarla ovunque andassi.

Ripresi a cercare, imperterrito, ma senza produrre risultati.

Forse, dopotutto, l'avevo davvero dimenticata a casa.

Cazzo.

Repressi un gemito di frustrazione, lasciandomi cadere a terra e prendendomi la testa tra le mani. Se avessi avuto ancora i capelli lunghi, ero certo che li avrei strappati ad uno ad uno dal nervoso che avevo addosso in quel momento. Oppure no. No, ci tenevo troppo.

Abbassai le palpebre per qualche istante, chiudendo tutto fuori, e mi beai semplicemente del silenzio intorno a me. Poi li riaprii, sospirando. E lo vidi.

Incastrato tra alcune magliette e un paio di jeans - fino a poco prima ordinati con cura maniacale - e avvolto in un semplice involucro di plastica a proteggerlo, faceva capolino lo striscione che pochi mesi prima della pausa ci avevano regalato alcune fan, in Svezia.

it is what it isDove le storie prendono vita. Scoprilo ora