Nota bene: il capitolo è stato scritto sotto dettatura, la scrittrice non si assume la responsabilità di ogni singola parola.
Buon divertimento!
Mettiamo le cose in chiaro. Non parlerò di "malattia", di "disturbo della personalità", di "problema psicologico" e nemmeno di "anormalità", ma vi parlerò semplicemente di quello che sono diventato e soprattutto di come lo sono diventato. E se alla fine del racconto penserete ancora che sono un malato mentale, allora sono solo problemi vostri.
Non ho intenzione di passare per la vittima della situazione, né tanto meno di esigere il vostro perdono, sia chiaro: non ho niente di cui farmi perdonare, non mi pento di nulla. Voglio solo dare la mia versione dei fatti e sono sicuro che se anche voi aveste avuto la mia vita, non stareste qui a giudicarmi.
Partirò dall'inizio, dalla mia infanzia, se così si può definire. A volte, quando sento parlare le persone della loro infanzia, mi viene da invidiarli: ripensano ai momenti passati a giocare con gli amici, alle marachelle combinate, all'affetto dei loro familiari e così via. Quando io penso alla mia infanzia, l'unica cosa che mi viene in mente è una sbarra. È l'unico ricordo che ho. Bello, vero? Sia chiaro, non sto dicendo che la danza è stata un errore nella mia vita, anzi, se non avessi ballato probabilmente non sarei nemmeno riuscito ad andare avanti, la danza mi ha aiutato in molti modi, ma quando sei piccolo, in un paese come la Russia, solo e senza famiglia, la danza non è certo il miglior amico che si possa avere.
Perché dico senza famiglia? Perché è così. Per molti anni della mia vita sono stato solo in Russia, mentre la mia famiglia era in Italia, a crescere il secondogenito in un luogo più consono a un bambino.
Io invece ero nato lì e lì dovevo restare secondo i miei genitori: dovevo finire lì la scuola di danza, dovevo prendermi lì il diploma e probabilmente dovevo anche morirci lì. Per un periodo di tempo, mentre i miei genitori erano in Italia, io sono stato chiuso in un collegio, un collegio solo maschile per giunta.
Era un collegio orribile, con insegnati interessati solo ai soldi di noi studenti, il loro interesse non era istruirci, ma tenerci lì il più a lungo possibile, più soldi spillavano alle nostre famiglie e più erano contenti. Logicamente era un collegio per ricchi, mio padre non mi avrebbe mai mandato in una scuola pubblica, lui aveva avuto la stessa educazione e io dovevo averla a mia volta. Quando sentii che avevano iscritto David in una scuola pubblica e alla scuola di danza dei Leonardi per poco non spaccai la cornetta del telefono.
Ricordo ancora quelle inutili telefonate settimanali che mi facevano i miei genitori.
«Stai bene?» chiedeva mio padre, come se gliene fregasse qualcosa. Io rispondevo di sì, rispondevo che andava tutto bene, provavo a raccontargli di qualche avvenimento divertente che mi era successo, ma lui mi congedava passando la cornetta a mia madre, la quale mi chiedeva se stessi bene e io ripetevo ancora le stesse cose.
Mentivo.
Come avrei potuto stare bene? La mia vita era divisa in collegio e danza, danza e collegio. Al collegio, poi, non potevamo fare nulla, potevamo uscire un solo giorno a settimana per due ore serali, suppongo che se mi avessero carcerato sarei stato molto più libero.
Il vero problema, però, di tutta quella situazione erano le lezioni di danza. Io adoravo ballare, come lo adoro tutt'ora, mi sento libero davvero solo quando sono su un palco, ma quelle lezioni mi distruggevano ogni giorno di più. E non sto parlando della severità con cui insegnavano, ma di quello che ci dicevano, di quello che mi dicevano. Non so se esiste un reato per chi cerca di farti sentire ogni giorno sempre più inutile, ma indubbiamente dovrebbero inventarlo.
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Io e i miei sette fratelli maggiori - In revisione
General FictionLa storia è in revisione! Martina Leonardi ha solo tre anni quando i suoi genitori muoiono in un incidente d'auto lasciando lei e i suoi sette fratelli maggiori orfani. Il lutto sconvolge le loro vite e li costringe a vivere separati per un po', fi...
