•Capitolo Dieci•

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Heather non si sentiva più le gambe.
Non sapeva dire con certezza per quanto tempo avessero camminato, procedendo su per quell'infinita rampa di scale, senza un attimo di pausa, con ormai le membra ridotte a gelatina.
Con un gesto secco, la ragazza si scostò il ciuffo color pece dalla fronte madida di sudore; aveva assolutamente bisogno di una doccia. E di un letto. Altrimenti sarebbe morta.
Non aveva nemmeno la forza di parlare, preferendo invece conservare le forze al fine di continuare l'interminabile salita verso quella che sarebbe stata la sua nuova stanza. Le faceva ancora strano pensarlo: aveva pur sempre passato dieci anni della sua vita a dormire su uno sporco materasso smunto in una lurida soffitta dominata da blatte. Una volta le era anche capitato di ritrovarsene una tra i capelli: Abigail, vedendola, aveva dato uno strillo talmente potente da smuovere l'intero edificio e le aveva addirittura colpito la testa con un bastone, pur di scacciare il disgustoso insetto. Heather fu succube di un dolore lancinante al capo per giorni e giorni. Quello era stato uno dei tanti momenti in cui avrebbe voluto avere una stanza che fosse appartenuta solo a lei.
E quel momento forse era arrivato.
Prima che però potesse rallegrarsi al pensiero di avere una camera tutta per sè, per la prima volta nella sua vita, le parole di Andrew le rinfrescarono fastidiosamente la memoria, rimbombando nella sua mente come  un'eco lontano. Ve lo dico subito: poiché non abbiamo a disposizione stanze completamente vuote, vi toccherà condividerle con qualcun altro.
Con qualcun altro.
Certo, l'ultima cosa che Heather voleva in quel momento era aver a che fare con altri sconosciuti. Andrew e Corey bastavano ed avanzavano, per quel giorno.
«Allora, siamo-siamo arrivati?» la voce ansante di Harry interruppe bruscamente i pensieri della ragazza, che ne approfittò per fermarsi un attimo, prendendo un respiro profondo.
L'interpellato si voltò verso di loro con un sorrisetto soddisfatto in volto.
A quanto pare godeva nel vedere i loro visi stanchi e sudati, le gambe quasi sul punto di crollare.
Al contrario, Andrew sembrava rilassato come non mai.
«Ci siamo, ricciolino, sta' tranquillo» rispose, il sorriso che non abbandonava il suo volto nemmeno per un secondo.
Prima che Harry avesse la possibilità di ribattere per via dell'assurdo nomignolo affibbiatogli, la loro guida si fermò su un pianerottolo, davanti all'ennesima porta.
«Stanza 290» proruppe, osservando attentamente la targa. Ognuna delle camere, infatti, era contrassegnata da una targa in quello che sembrava oro - molto probabilmente finto - su cui era riportato un numero a caratteri cubitali.
Abbiamo oltrepassato 290 stanze. Fu il primo pensiero di Heather, mentre osservava Andrew premere la mano su un pannello accanto alla porta; questo si illuminò in un istante e la porta si spalancò davanti a loro.
«Ecco la tua stanza, mia cara Heather.»
***
La camera si rivelò di gran lunga più colorata del resto dell'edificio; essa creava un netto contrasto tra due strutture che sembravano dare l'impressione di essere completamente distaccate l'una dall'altra: il palazzo bianco e spoglio all'esterno della porta e la graziosa camera con un pavimento in legno e le pareti ricoperti da strani arazzi, probabilmente ricamati a mano, con una finestra che dava sulla parte principale dell'edificio, gremita di persone; un letto a castello occupava l'estremità della stanza e due scrivanie - una posizionata di fronte alla parete destra ed un'altra davanti quella sinistra - completavano l'arredamento, affiancate da due armadi di modesta dimensione.
La scrivania a sinistra era ricolma di libri e strani oggetti che la giovane non riuscì ad identificare, in un primo momento, troppo presa dall'ammirare quella che sarebbe stata la sua nuova "dimora".
Era più di quanto si sarebbe mai aspettata, più di ciò che si sarebbe mai potuta permettere, con la vita che conduceva prima del rapimento. Era tutto così... strano e nuovo e... surreale che stentava a crederci. Come per essere sicura di ciò che vedeva, la giovane si diede un pizzico sul braccio e chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, quasi temeva di ritrovarsi nel vecchio palazzo abbandonato di quella città semidistrutta in cui aveva vissuto per così tanto tempo, con nient'altro che la puzza di marcio a circondarla.
Invece, era ancora lì. Al Rifugio e al sicuro, per la prima volta dopo anni.
«Mi sembra che ti piaccia la tua nuova stanza.» la voce di Andrew le arrivò quasi ovattata alle orecchie, e costrinse la giovane a voltarsi verso lui e i suoi fratelli, che osservavano la camera altrettanto ammaliati. Anche loro avevano vissuto nella povertà più totale, fino a quel momento.
«Distacca... molto dal resto dell'edificio.» si limitò a commentare Heather, lanciando un breve sguardo ai mobili in legno.
«Questo è il piccolo angolo di paradiso di ogni Sopravvissuto.» rispose Andrew, appoggiandosi allo stipite della porta. «È uno dei pochi luoghi in cui possono essere loro stessi. Forse ci riuscirai anche tu, con il tempo.»
La corvina non rispose, guardando invece Harry, Abigail ed Andy.
Andrew intercettò il suo sguardo e iniziò a parlare, prima che Heather avesse modo di formulare la domanda: «Scorterò i tuoi fratelli nelle camere poco distanti dalla tua. Passerò più tardi a darti una lettera con i numeri delle loro stanze.»
La giovane annuì e gli fece un cenno con il capo, lanciando un ultimo sguardo ai suoi fratelli: aveva paura a lasciarli da soli, ma ricordava, in compenso, la promessa di Corey che non sarebbe stato fatto loro alcun male.
Ed Heather gli credeva. Non sapeva come, nè perché, ma gli credeva.
Ed evidentemente anche Harry ed Abigail stavano iniziando a farlo: nonostante gli sguardi torvi di entrambi, infatti, non sembrava esserci traccia di preoccupazione nei loro occhi. Due erano le cose, quindi: o erano molto bravi a nascondere i loro sentimenti, oppure stavano iniziando a comprendere ciò che li circondava. Una vera e propria macchina per la sopravvivenza.
Heather ebbe appena il tempo di salutare i fratelli con un sorriso rassicurante appena accennato, prima che la porta si chiudesse davanti a lei con uno scricchiolio leggero. Chissà se le loro stanze sarebbero state altrettanto accoglienti e graziose come la sua.
Mettendo per un attimo da parte le domande, la giovane iniziò a vagare per la stanza, passando le dita sui mobili di legno. Lanciò anche una breve occhiata alla scrivania ricolma di cianfrusaglie e libri vari, dai titoli scritti in una lingua a lei sconosciuta.
Fece per avvicinarsi e iniziare a curiosare, quando un'ondata di sonno la travolse all'improvviso. Ad un certo punto, tutti gli eventi che si erano susseguiti sino a quel momento le si abbatterono sulle spalle con la forza di uno tsunami, costringendola a sedersi sul letto, sfinita. Da quanto non dormiva?
Aveva perso del tutto la cognizione del tempo. Erano accadute troppe cose troppo in fretta.
Forse un pisolino mi farà bene. Pensò, stendendosi sul letto. Non appena la sua schiena entrò a contatto con la morbidezza del materasso caldo e profumato, non potè trattenere un sospiro di sollievo: finalmente un letto decente su cui dormire.
Tuttavia, questi pensieri occuparono per breve tempo la mente della giovane che, dopo notti insonni, decise finalmente di riporre le preoccupazioni e i quesiti in un piccolo scomparto della sua mente, lasciandosi finalmente cullare dalle braccia di Morfeo e sprofondando in un abisso profondo e senza sogni...
                                                                 ***
A svegliarla dal suo sonno fu il ticchettio incessante di un orologio e lo sfregare fastidioso della punta di una penna su un foglio. Heather dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per aprire gli occhi e guardarsi intorno, anche se si sentiva di gran lunga più riposata.
Il suo sguardo viaggiò per tutta la lunghezza della stanza e si fermò su una figura chinata sulla scrivania ricolma di libri e scartoffie varie che Heather avrebbe voluto leggere prima di sprofondare nel regno di Morfeo. Inclinò la testa, osservando i lunghi capelli della giovane seduta risplendere alla luce di una lampada posizionata sulla scrivania. Quella, tuttavia, era l'unica cosa che riusciva a scorgere, poiché i libri - che formavano delle pile ordinate lungo i bordi del legno intagliato - le impedivano un qualunque tipo di visuale.
«Ti sei svegliata.»
La corvina sussultò udendo la voce della ragazza, per poi darsi mentalmente della stupida subito dopo: non avrebbe dovuto saltare su per così poco. Non le faceva onore, non dopo tutto ciò che aveva passato.
La sconosciuta smise di scrivere, alzando il capo e voltandosi verso di lei. La luce della lampada le illuminò il volto, ed Heather si ritrovò seriamente a chiedersi se in quel dannato Rifugio ci fosse qualcuno con un aspetto sgradevole. E la giovane che aveva di fronte non faceva di certo parte di quella categoria.
I tratti del suo viso erano morbidi, gli occhi marroni avevano una graziosa forma a mandorla e sembravano nascondere una profondità ed un'intensità impossibile da celare; le labbra carnose erano impegnate in una smorfia seria ma regale al tempo stesso e le mani vellutate stringevano la penna da un lato e l'estremità di un foglio dall'altro, mentre parte dei capelli castano scuro le ricadevano morbidi sulla spalla. «Hai dormito per un po'» constatò, la voce calma e vellutata.
Heather sbattè le palpebre, mettendosi seduta piano sul materasso per evitare giramenti di testa improvvisi: «Quanto... quanto è un po'?» domandò e, quando parlò, la voce le uscì decisamente più roca rispetto al normale.
La ragazza davanti a lei lanciò uno sguardo all'orologio posizionato poco sopra la scrivania. «Circa cinque ore.»
«Cinque ore?!» fece Heather, stupita «Com'è possibile? E come fate a tenere il tempo se siamo sotto terra?!»
«Gli orologi qui portano tutti la stessa ora, sto imparando a fidarmi dei mezzi di questo posto» rispose la ragazza con tono calmo, accavallando le gambe e fissandola con i suoi profondi occhi marroni «Dovresti iniziare a farlo anche tu.»
«Ci sto provando, miss so-tutto-io.» ribattè la corvina, acida. L'ultima cosa che voleva in quel momento era una ramanzina dalla sua nuova coinquilina.
Quest'ultima alzò le mani in segno di resa, anche se la sua espressione rimase imperturbabile. «D'accordo, come vuoi, non voglio litigare con la mia nuova compagna di stanza. In effetti, stavo iniziando a sentirmi un po' sola.»
Heather alzò gli occhi al cielo e dovette mordersi la lingua per non farsi sfuggire qualche commento sarcastico.
La ragazza non sembrò accorgersene - oppure era stata tanto gentile da ignorarla - e recuperò qualcosa da sopra la scrivania ricolma di cianfrusaglie, per poi porgerla ad Heather. Era una lettera.
«L'ho trovata davanti alla porta, quando sono tornata.» le spiegò la ragazza «non l'ho aperta, ovviamente. Rispetto la privacy, a differenza di altri. Sono arrivata da poco e già ho intravisto un certo tipo di individui da cui sarebbe meglio stare alla larga.»
Ma Heather non stava più prestando ascolto alle parole della sua nuova coinquilina: lesse la lettera di fretta e furia, tirando su un sospiro di sollievo. Erano solo i numeri di targa delle stanze dei suoi fratelli, e fortunatamente non erano nemmeno troppo distanti.
Harry avrebbe risieduto nella stanza 293, ed Abigail insieme ad Andy nella 295.
«Sono buone notizie?»
Heather non rispose, ripiegando con cura la lettera e riponendola nella tasca dei suoi jeans sgualciti. Le cose più importanti adorava portarle sempre in giro con sè, in modo da non perderle mai di vista. Era sempre stata una tipa abbastanza disordinata, fin da piccola. E sapeva che quella stanza sarebbe rimasta candida, ordinata e pulita ancora per poco.
«Sai, se siamo destinate ad essere compagne di stanza, sarà meglio che proviamo a condurre un qualche tipo di conversazione, non ti pare?» nonostante la domanda della ragazza davanti a lei trasudasse un certo fastidio, il suo tono di voce rimase calmo e delicato come il tocco di una piuma.
Heather alzò quindi lo sguardo sulla giovane dagli occhi d'ambra e rispose, senza preoccuparsi di nascondere il tono duro che era da sempre abituata ad usare: «Non resterò qui a lungo.»
Ovviamente era una bugia.
E lo sapevano entrambe.
Corey non sembrava affatto il tipo che lasciava andare via le persone con tanta facilità, nonostante i suoi modi gentili. E anche se fosse riuscita a scappare con i suoi fratelli... dove sarebbe andata?
Solo degli sciocchi avrebbero rinunciato ad un tetto sotto cui vivere e a condurre una vita quantomeno decente, di quei tempi.
Tuttavia, ancora una volta, la giovane sconosciuta si premurò di non farle notare tutte quelle cose, preferendo ribattere con un piccolo sorriso e un accenno di divertimento. «Bè, allora per il tempo che rimarrai... vogliamo almeno essere tolleranti l'uno con l'altra?»
Heather la scrutò attentamente dall'alto in basso, analizzandola: non sembrava una persona meschina o di cui diffidare. Era una ragazza, come lei. Una Sopravvissuta.
Eppure celava... un tale vuoto, dietro quegli occhi color miele. Come se le mancasse qualcosa. Qualcosa di molto, molto importante. Ed Heather voleva scoprirlo: era sempre stata una tipa curiosa, ed ora che aveva la possibilità di incontrare nuove persone dopo anni di ricerche... perché non approfittarne? Così, dopo quella che parve un'eternità, la corvina emise quello che doveva essere un grugnito d'assenso.
La giovane fece un piccolo sorriso, contenta di quel miglioramento. «Bene, quindi direi di cominciare con una presentazione più che semplice. Come ti chiami?» le domandò, poggiando i gomiti sulle ginocchia e inclinando lievemente la testa di lato, incuriosita dalla sua nuova coinquilina forse tanto quanto lei.
«Heather.» rispose la diciannovenne, reggendo con fierezza il suo sguardo.
La ragazza le fece un cenno in tutta risposta.
«Piacere di conoscerti, Heather. Io sono Joanne, ma tu puoi chiamarmi Jo.»

The Curse - La Maledizione della Terza MoiraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora