Capitolo 8

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Ci sono momenti nei quali tutto sembra insignificante. Momenti nei quali non importa cosa accada intorno a te, tutto ti è indifferente. Gli stessi momenti nei quali la presenza delle persone non ti sfiora neanche se ad essere la tua unica amica è la solitudine.
Questo è uno di quei momenti.
Mi sento svuotata di ogni emozione, come se ogni colore fosse stato prosciugato via dal dolore.
Ci sono cadute dopo le quali si ci rialza.
Io non mi sono mai rialzata.
Sono rimasta per terra, calpestata dalla vita che continuava a scorrere senza aspettarmi.
Ogni parola appariva come un suono sordo alle mie orecchie.
Nulla aveva più significato ormai.
Nulla è più in grado di smuovermi da più di un anno.
Ed io aspettavo. In tutto questo tempo ho aspettato che qualcuno mi dicesse che tutto ciò non era reale.
E mentre aspettavo, nessuno si aspettava più niente da me.
Nessuno che avesse provato a rialzarmi sapendo che non sarei mai riuscita a farlo.
E qui arrivò la solitudine.
Una vita priva di significato, ecco cos'era diventata la mia esistenza.
Tutto dopo quella sera.

Ricordo ancora il lampeggiare dei fari dell'ambulanza e il rumore assordante delle sirene.
Ricordo gli occhi bagnati dalle lacrime di Jessica e di come nessuno volesse dirmi cosa fosse successo.
Poi decisi di scoprirlo da sola.
E lo vidi.
Vidi il suo corpo pallido affondato nella vasca da bagno. Degli uomini, probabilmente poliziotti, lo stavano portando via. 
Dalla sua mano pendeva una nostra foto.
Le sue dita la stringevano come se si fosse aggrappato a quel pezzo di carta con tutte le sue forze.
Nonostante vedessi il suo corpo privo di vita non avevo ancora capito cosa fosse successo.
Non poteva essere vero del resto.
Pensai addirittura di star sognando.
Poi sentii degli uomini parlare.
"Suicidio"
"Affogato"
"Depresso"

Queste tre parole arrivarono alla mia mente limpide e aride al tempo stesso.
Poi capii: Michael era morto.
Corsi verso il suo corpo, ora adagiato su una barella e coperto da un lenzuolo. Ma prima che le mie dita potessero sfiorare la sua pelle venni bruscamente fermata e mi venne chiesto di allontanarmi dal luogo dell'indagine.
E iniziai ad urlare.
Urlai fino a farmi bruciare la gola.
Credevo quasi si fossero consumate le corde vocali, poi apparve in mente il viso di Michael e urlai ancora.
Ricordo che vidi solo il buio.
Mi svegliai ore dopo senza nessuna consapevolezza se non quella che non avrei mai più toccato la sua pelle o sentito la sua voce.

Ora mi ritrovo qui a pensare che nonostante un anno trascorso dalla sera che cambiò la mia vita, i ricordi sono vividi nella mia mente.
Sono impressi nei miei pensieri così come il pallore del suo corpo.
Ogni singolo giorno mi sono sentita invasa dal senso di colpa.
Michael era caduto ed io non avevo saputo rialzarlo.
Io continuavo a respiare, alzarmi la mattina, compiere banalità. Mentre a lui era stata tolta questa possibilità. Il mondo lo aveva spinto a quel gesto estremo.
Alcuni mi hanno detto che soffriva di depressione.
Non credo neanche a questo.
Michael non era depresso, me ne sarei accorta. Giusto?

Ho pensato spesso di privarmi la vita. Ma sarebbe stato troppo egoista farlo. Io non avevo il diritto di dire che non meritassi più di vivere. Non ne avevo le ragioni.
Lui si. Lo posso perdonare per questo.
Ma non potrò mai perdonare me stessa per non averlo saputo capire.
Lui voleva solo essere capito.
Nessuno lo ha mai fatto.
Mentre lui ha sempre capito me, mi ha sempre messa al primo posto.
Ho pensato a quest'ultima cosa quando ho preso la decisione di trasferirmi. Eppure non c'è giorno nel quale non pensi a lui e ad i suoi occhi che mai più potranno essere vivi.
Un anno e io mi sento sempre come il primo giorno senza di lui: lacerata.
La mia anima è stata stritolata dal dolore e dalla consapevolezza della sua assenza.
Dopo molto tempo lascio scorrere la prima lacrima, sotto le note di una canzone che Michael non potrà mai più ascoltare.

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