Café Schwarzenberg

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Ormai ogni angolo di Vienna mi parla di te.
I muri delle case, le pietre delle strade, il soffitto macchiato di fumo dei vecchi cafè, il colore del cielo di gennaio ...
Vorrei poter dimenticare ma allo stesso tempo sono affamata di ricordi. Cosa ne è stato di noi?
Cosa ne è stato di questa città? Il suo splendore barocco non ti sembra offuscato dalle nebbie del dolore?
Forse sono solo io che mentre attraverso le strade di un tempo provo un gelo crudele, che mi penetra nelle ossa. E la meschinità del giorno è più lacerante dell'ipocrita indifferenza della notte. I suoni feriscono le mie orecchie stanche. Il vento sferzante, come mille coltelli, deturpa il mio viso.
Sono un naufrago nella fiumana di gente. Macchie scure attraverso le quali arranco, sola.
Vedo ma non mi permetto di guardare. Cerco senza sapere cosa cercare.
Attorno a me è tutto familiare ma estraneo.
Mi fermo e so che non dovrei. Mi affaccio alla vetrina del Café Schwarzenberg tentata dalla promessa di calore.
Una coppia è seduta a quel tavolo.
Sbatto le palpebre.

"È più bella di Parigi. Non mi è facile ammetterlo ma è così. È più elegante... più raffinata... il fascino del mistero si mischia alla limpidezza dello stile di vita. Potrei quasi considerare l'idea di viverci un giorno non credi?"
Ero distratta, mi voltai. "Si? Si sarebbe bello viverci. Il senso civico dei viennesi è ammirabile, è senz'altro una città sicura e il suo patrimonio artistico la rende un fiore all'occhiello."
"Ma?" Mi morsi il labbro. "Perché credi che ci sia un ma?"
Alzò le spalle. "Non so, mi sembra strano che tu non abbia niente da obiettare."
"Perché dovrei? Sarebbe piacevole vivere qui, nella zona della Leopoldstadt magari, è un quartiere tranquillo, non troppo affollato, i turisti convergono nei musei. Oppure la zona universitaria..."
Sul suo volto era comparso un sorriso eccitato. " Non dirmi che lo stai valutando seriamente! Anzi dimmelo. Cioè la pensi così, non devi dirmelo per farmi contento. Ti piacerebbe vivere a Vienna?"
Ringraziavo il cielo ogni volta che mi era concesso vedere quel sorriso. " A te piacerebbe?"
Annuí. Come un bambino, sprizzante di entusiasmo. "E troveresti un lavoro al Leopold Museum?"
I suoi occhi si illuminarono. "Non sarà facile, ma sì non potrei pensare a niente di diverso. Ho esperienza come critico d'arte e questo è l'unico campo in cui potrò mai pensare di lavorare."
Lui e l'arte. Mi crucciai. " Non avrei problemi a continuare i miei studi qua. Per i primi tempi potrei lavorare in una libreria o in un café  e intanto cercherei un posto all'università."
"Opportunità Säämiskänvärinen"
Cerbiatto. La sua metà finlandese a volte si faceva prepotente.
"Cosa vuoi dire?"
"Voglio dire, che non devi lasciartele sfuggire." E ancora sorrideva.

Come facevi? Glielo avrei sempre voluto chiedere. Come faceva a sorridere sempre? Era la vita che lo faceva sorridere?
"Noi non apparteniamo alla vita" diceva Pär Lagerkvist. Io direi che la vita non appartiene a noi.
Siamo sballottati dalla vita. Maltrattati dalla vita. Oppure la vita che viene accusata per tutti i nostri mali è un concetto astratto e si può parlare invece solo di esistenza.
Ma a questo punto mi chiedo, quando un uomo, o una donna, cessano di esistere?
Il dolore. È una bella frase da intellettuali dire " Cogito ergo sum" è una frase di uno che non ha subito le ingiurie dell'esistenza. La banale crudeltà degli affanni quotidiani.
Soffro quindi sono. Provo dolore quindi esisto.
Allora sì Pär hai ragione. Anche io voglio seguire una strada che porti lontano dalla vita.
Il cessare del dolore è il cessare dell'esistenza, è la morte o il nulla?
Ecco. La mia mente mi ha distolta dal mondo certo di sensazioni fisiche. Ho un nemico costantemente in agguato. La mia mente, la mia mente mi ucciderà. Guardo e non riesco a vedere. Cerco ... cerco l'oblio.

Rot ist meine LieblingsfarbeWhere stories live. Discover now