Capitolo 1

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Mi chiamo Ezhel.
Ho trentasei anni.

Ho sempre passato le mie giornate con i miei nonni, quando ero piccolo.
Non ho mai avuto i miei veri genitori accanto (se non quando sono nato), né fratelli o sorelle.
Ho sempre preferito vivere nella mia solitudine e nel mio mondo.

Sono una persona con la giusta fantasia, abbastanza suscettibile e a cui piace ridere, ma non è mai stato facile farlo per me; comunque forse dovrei dire ero, dato che ora non so neanche io come e cosa sono.

A questo punto vi chiederete cosa state leggendo e cosa andrete a leggere.
Ebbene, non so dire se questo sia un diario, un'autobiografia o una lettera, magari è tutto questo; so solo che quello che scriverò servirà al "me" del futuro.

Ho paura di perdere quello che sono veramente o che ero, e se non rimedio velocemente rischio di trasformarmi, per cui quello che farò sarà raccontarvi una parte della mia vita.

Perché rischio di trasformarmi?
Perché la mia maschera mi sta cambiando.
Non parlo di una maschera come quelle che si indossano a carnevale o ad Halloween.
No, questa maschera l'ho costruita io stesso; o meglio, è stato il mio subconscio a costruirla, e tutt'ora la indosso.
Per farvi meglio capire: non è qualcosa che si applica sopra il volto, ma è una seconda personalità che vive in me.
È in me da quando ero piccolissimo.
Sa parlare, pensare, ma non riesce a possedermi quando scrivo.
Non ha ancora imparato a farlo, ma ci riuscirà al più presto, per cui ho veramente poco tempo.

Quando ero piccolo i miei nonni non riuscivano a starmi accanto tutti i giorni, perché non avevano tutte le energie che può avere un genitore più giovane, nonostante provassero a starmi accanto il più possibile.

Questa situazione mi costrinse a stare nella solitudine.

La mia mente indifesa e innocente cominciò a vedere la solitudine come una stanza vuota e bianca.
La soluzione arrivò velocemente: mi bastava semplicemente arredare quella stanza.
Avevo quasi ogni strumento per farlo, nella mia mente.
E così la fantasia e il senso di questa stessa si sviluppò sempre di più.

La pittura e la poesia mi aiutarono molto.
La pittura mi permetteva di rappresentare qualsiasi cosa ci fosse nella mia mente, su un bianco e piatto foglio.
La poesia stava mano a mano con la pittura, permettendomi di esprimere ciò che volevo, ciò che pensavo.

Ma questi stessi furono anche la mia rovina.

Nonostante cercassi in tutti i modi possibili di arricchire quella stanza, c'era un piccolissimo spazio vuoto all'angolo; uno spazio intoccabile, un vuoto che faceva paura al solo pensiero.
Mi creava fastidio e tristezza.
Il mio incubo era cadere in quel vuoto.
Mancava qualcosa, qualcosa di essenziale.
L'amore vero e proprio, fraterno, materno o paterno.
Certo, c'erano i miei nonni, ma non sono mai riuscito a vederli come un padre o una madre.

Non potevo fare nulla per riempire quel vuoto in quel momento, anche perché avevo paura di cadere se mi fossi avvicinato troppo; cadere nella tristezza.
Non volevo pensare a quel vuoto, a quello che mi mancava.
Ma più provavo ad allontanarmi da quell'angolo di stanza, più le pareti sembravano avvicinarsi e spingermi verso questo.

Il 12 Ottobre del 1980, quando avevo circa otto anni, mia nonna ebbe un attacco di cuore.
A quel punto per mio nonno iniziò un lungo periodo di tristezza.
Non riusciva più neanche a badare a me.

Mi ritrovai senza più mia nonna e quasi neanche mio nonno, dato che cominciò, per lui, un periodo di depressione.
Dopo quell'episodio iniziai ad usare la poesia e il disegno quasi ogni giorno.
Scrivevo e disegnavo, anche se sembrava che le cose che facevo non avessero un senso.
Furono proprio queste due cose che costruirono, pezzo per pezzo, una figura dentro di me.
Una figura che non posso vedere, che nessuno può vedere.
Qualcosa che sento e che oramai trovo essenziale, ma che è, allo stesso tempo, il veleno che mi rovinerà.

Una metà con cui potevo parlare senza problemi, e che, a sua volta, riusciva a darmi consigli.
Molti penseranno fosse la coscienza, ma so che non è la mia coscienza, perché anche questa metà dentro di me faceva degli sbagli.
Decisi anche di dare un nome alla metà, ma più che altro fu lui stesso a deciderlo.
Il suo nome è Ra.

Ra è sempre stato una maschera che posso indossare quando voglio, ma allo stesso tempo una maschera che non se ne va; e anche se volessi, non potrei.
Perché?
Perché ho paura che cacciando via Ra, la solitudine potrebbe sbranarmi.
Ra riempie il vuoto che mi mancava; ho un fratello con cui parlare, o una madre e un padre a cui dire tutti i miei problemi.

Molti psicologi mi hanno parlato della possibilità di un caso di bipolarità, ma non è neanche così.
Lui è così diverso e così simile a me.
Ha delle sue idee, dei suoi pensieri che crescono con lui e con me, ma vive nella mia mente, ed è stato creato da questa stessa.
I suoi pensieri sono nati dai miei.
Ma so che detto così molti di voi non capiranno, per quanto provassi a sforzarmi; ma io lo capisco perfettamente.

Ra è la parte di me più poetica, seria ed espressiva, ma anche cattiva e dolce; insomma, non ha un carattere definito, ma più che altro un carattere che si modifica a seconda del mio modo di pensare.

A scuola molti non mi capivano.
Quando scrivevo i temi non perdevo l'occasione di parlare di Ra.
Inutile dire che le maestre mi credevano pazzo.
Provarono più volte a parlare con mio nonno, ma lui non gli diede ragione.
Mio nonno riusciva a capirmi probabilmente, ma da quando mia nonna morì cominciò a non parlare più.

Le maestre provarono anche a parlarmi più volte, pensavano avessi qualche problema, ma non capivano che, per quanto potessero provare a cancellare Ra, non se ne sarebbe mai andato.

E Ra mi diceva più volte di non ascoltarle.
I compagni mi prendevano in giro.
Ho vissuto cinque anni d'inferno, fino a quando non arrivai alle medie.
I primi mesi furono difficili, ma riuscii ad abituarmi.

Nel corso della pubertà capii che molte cose stavano cambiando in me.
Cominciai ad osservare il mondo con più attenzione.
Il mio senso critico cresceva sempre di più, ma le mie idee erano sempre più diffuse.

Capii l'importanza delle mode.
Per Ra le mode non erano altro che un'inutile mezzo per far parte della massa.
A quei tempi erano tutti uguali.
Il modo di pensare degli altri avrebbe rischiato di modificare il mio modo di pensare, ma io non volevo essere diverso.
Cercavo sempre di assomigliare a tutti gli altri.
Studiavo il modo di parlare e di pensare dei miei amici, per poterlo ripetere e non apparire diverso dalla massa.
Se non fossi stato uguale agli altri, mi avrebbero preso in giro, ma Ra continuava a dirmi di non crollare e di resistere.

La moda è una delle tante rovine al mondo per chiunque.
I mass media, i giornalisti e la TV la sfruttano per renderci burattini.
Tanti inutili burattini che possono essere usati a vantaggio delle menti più alte, anche se siamo noi a renderci menti basse, quando potremmo diventare anche più intelligenti di quelli che chiamiamo "potenti".
La verità è che basta un aggettivo come "presidente" per rendere una persona anche più potente di quanto sia, e in questi anni ho capito, anche grazie alla poesia, quant'è importante la parola e la libertà.
A volte siamo noi stessi a costruirci le nostre gabbie; non è sbagliato seguire le leggi, anzi, ma è sbagliato perdere quella libertà che possiamo avere senza danneggiare noi stessi e gli altri.

Nel frattempo Ra cresceva insieme a me, e si accorse del mondo in cui eravamo immersi.
Lui non cambiò modo di pensare.
Non voleva cambiare, essere distrutto, modificato dagli altri.

E nonostante mi ripetesse più volte che se non fossi stato attento, questo mondo mi avrebbe reso una marionetta; io continuavo ad impormi.
Passai un periodo a pensare se abbandonare o no Ra, ma più provavo a liberarmene, più capivo che avrei sbagliato nel fare questa cosa.
Senza Ra avrei perso il senso artistico.
Decisi quindi di farlo rimanere, e di dare più ascolto a lui.

MaskWhere stories live. Discover now