Capitolo 1

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Maddalena

<<Sono ricorrenti?>>
<<Che cosa?>>
<<I sogni.>>
<<Non sempre.>>
<<Cosa hai sognato di recente?>>
<<La realtà.>>
<<Che cosa intendi?>>
<<Ciò che vedo accade.>>
<<E ti spaventa?>>
<<No>> risposi.
Continuai a girarmi i pollici per qualche momento, poi mi conficcai le unghie nei palmi: era riuscito ad avvincermi per un istante. Sdraiata sul divanetto dello studio -che ricordava una chaise longue di fine Ottocento-, non riuscivo a vedere il dottor Ceccarelli, ma sapevo che stava scorrendo con gli occhi anziani e infossati lungo la sua infinita lista di appunti confusi, a ricercare la riga in cui aveva annotato la prossima domanda da pormi.
<<E che cosa hai sognato in passato?>>
<<La vicina di casa che faceva rovesciare il suo vaso di ciclamini dal balcone mentre provava ad annaffiarli, mia madre che tornava a casa con uno zerbino nuovo e che poi, insoddisfatta, decideva di andare a comprarne un altro in quel negozietto di casalinghi inaugurato settimana scorsa ai Parioli. Lì è tutto più chic.>>
<<E questo è successo?>>
<<Sì, ho sentito persino la vicina piangere. Si lamentava, diceva che quei fiori glieli aveva regalati suo marito qualche mese fa, prima di morire. Erano l'ultimo ricordo che aveva di lui. Si erano appassiti da tempo, ma lei continuava a prendersene cura, come si tenta di aggiustare qualcosa che è irrimediabilmente rotto.>>
Ceccarelli sospirò. Lo sentii battere ritmicamente la penna sul dorso della mano. Sapevo che non era la risposta che si aspettava, così come sapevo che le mie erano menzogne estrapolate dal pozzo creativo della mia mente che fabbricava scene e storie con immediatezza quando era necessario nascondere un'anelata verità. In realtà, l'anziana vicina che avevo scelto come protagonista della mia farsa era affetta da una così grave forma di artrite, che non avrebbe mai potuto distendersi oltre il balcone per annaffiare le piante: era una remota eventualità dalla quale non si sarebbe mai più riavuta.
Per appagarlo un poco, gli dissi anche che avevo sognato Carla che, ritratta in una foto, si schermava dalla luce abbagliante del flash. Gli raccontai anche che avevo parlato del sogno alla mia amica, e che lei aveva inizialmente ipotizzato significasse un improvviso innamoramento dalla potenza abbacinante, proprio come una luce che piomba inaspettata sugli occhi. In realtà, l'allegoria mancata era molto più concreta: Carla aveva conosciuto subito dopo un fotografo spagnolo, un dilettante che spesso, il flash, non lo sapeva usare. Fu l'unica verità che raccontai durante quella seduta.
Qualcuno improvvisamente bussò alla porta. La segretaria che ne entrò aveva un'aria di trascuratezza tipica della mezza età, il naso arrossato e un fazzoletto umido e sporco che faceva capolino dalla tasca del cardigan. Consegnò un fascicolo al dottore e, prima di uscire, affermò con voce docile che gli avrebbe portato quella tisana che lui aveva appena chiesto. Dalla stretta fenditura della porta che si stava richiudendo, vidi mia madre gingillare per il corridoio con un incedere carico di tensione. Reggeva tra le mani un bicchierino di plastica, che talvolta portava alle labbra per sorseggiare un po' di caffè. D'un tratto alzò rapidamente il viso, allungò il collo per ricercare il mio volto e mi lanciò occhiate preoccupate e ansiose. Se la conoscevo bene, quando nessuno l'avesse vista, si sarebbe accostata alla porta e avrebbe curiosato dalla serratura, e quell'occhio invadente mi avrebbe ricordato che non si poteva eludere la sua costante sorveglianza.
<<E che mi dici di quel sogno di sei mesi fa?>>
<<Vuole sapere come ho annunciato la morte di Simone?>>
Ci fu un lieve sommovimento. Notai un'ombra allungarsi sul pavimento lucido: Ceccarelli si era piegato sul suo taccuino, pronto a lanciarsi tutto trionfio a descrivere le evoluzioni delle mie parole con la sua grafia immatura e strascicata.
<<Non le dirò niente.>>
Sapevo che Ceccarelli era stato manovrato da mia madre, che, sebbene sperasse di riuscire ad estirpare i suoi clamorosi sensi di colpa per la morte del più piccolo dei suoi figli, era terrorizzata dalla prospettiva che esistesse un destino immutabile o qualche forza soprannaturale che regolasse il corso degli eventi, o il fatto che li regolassi io.
L'atmosfera casalinga era ancora impaludata del ricordo di mio fratello. Che non avrebbe dovuto mandarlo a Velletri quel giorno per il compleanno del suo amico, che avrebbe dovuto portarlo con sé a scegliere il paralume per il salotto, ripeteva sempre mia madre a cena, girando la forchetta con aria malinconica nel passato di verdure che si preparava ogni sera, e accorgendosi solamente dopo qualche istante di profonda assenza che avrebbe dovuto usare il cucchiaio. Non so bene perché gli occhi di Simone si fossero illuminati di una strana euforia quando aveva annunciato che il padre di Vincenzino aveva promesso a lui e al suo amico che avrebbero trascorso un intero pomeriggio a scannare polli e maiali nella fattoria di famiglia, piantata in una campagna svirilizzata e recintata, sempre pervasa da un nauseante tanfo di letame. Difatti possedevano anche un piccolo maneggio, -non dei più curati- e un cavallino mezzo azzoppato, sempre dolorante -aveva detto Simone- che nitriva quasi fischiando come uno di quei vecchi grammofoni sfregiati del nonno. Ma un trauma facciale e toracico, delle lesioni agli arti ed un ematoma alla testa avevano corredato la notizia della sua morte. Il cavallino azzoppato era in realtà un destriero focoso e veemente, dal quale era stato disarcionato mentre sfrecciava per la pianura affogata di una pioggia gelata e scrosciante. Né mia madre né mio padre avevano badato alle parole che pronunciai al funerale di Simone: credevano che stessi pregando, mi avevano detto, che chiedessi a Dio di accogliere l'anima di mio fratello tra i beati. Se avessi saputo che quell'azzardo mi sarebbe costato tanto malessere, avrei taciuto. Se avessi saputo che quelle parole mi avrebbero portata a fissare, come stavo facendo in quel momento, il centrino di pizzo sotto la foto incorniciata della figlia maritata di Ceccarelli, non avrei mai detto che avevo sognato la morte di Simone con un giorno di anticipo.
Mi voltai verso il dottore. <<Mi ha sentito? Non le dirò niente.>>
Ceccarelli si sistemò gli occhiali sopra il naso puntuto e arrossato, poi convenne che le lenti erano appannate, se li sfilò e li pulì con la manica della camicia. Sbatté le palpebre rugose e sospirò con un birignao. Poi spianò la fronte rassegnato, con una leggera spinta delle gambe mandò la sedia verso la scrivania e toccò un flacone di pasticche accanto ad un computer di vecchia generazione. Con la penna, poi, prese a tracciare un appunto veloce su un foglio bianco.
<<No.>> Mi sollevai con uno scatto dal divanetto. <<Non ingoierò più quegli antidepressivi. Io sto bene di testa. Anzi, sa che le dico?>> Infilai le mani dentro le tasche della felpa e scrollai le spalle con una sbuffata sarcastica. <<Mi sono inventata tutto. Non ho mai sognato nulla. L'ho detto solamente per farmi notare, per sfuggire all'anonimato casalingo. Non sono mai stata brillante in famiglia. Però vede, adesso che mi sono inventata questa storiella, come si preoccupa mia madre?>> Feci un cenno verso la porta. <<Ha rinunciato al mondo da sei mesi, ma non a curare la sua finta figlia pazza.>>
Le mie parole mi sorpresero come una scossa nuova e inaspettata, ma non stornai gli occhi nemmeno per un istante da Ceccarelli. Lui alzò lo sguardo e, con un movimento del capo che voleva indicare pietà, disse: <<Maddalena... proprio un nome evocativo per una come te. L'ho sempre associato alle ingannatrici.>>
Trovava che quella fosse la linea ideale da adottare in una situazione simile: pungolare la mia dignità attendendosi una reazione energica che avrebbe dovuto farmi smentire ciò che avevo detto, cosicché sarei ritornata, arrendevole, sul quel divanetto dal rivestimento sudato. Tutto ciò che riuscii invece a pensare fu che la Maddalena delle Sacre Scritture era stata descritta come una donna fragile e mistica, su cui gravava il peso di un'insanità mentale, un esaurimento nervoso e una possessione demoniaca.
Uscii mentre la segretaria entrava con la tisana. Mia madre mi passò accanto e si fiondò nello studio, sprangandolo alle sue spalle con fare definitivo. Io, invece, mi lasciai coinvolgere dal suo vizio e mi accostai alla porta. Riuscii a distinguere il borbottio di Ceccarelli punteggiato di affermazioni bizzarre. Si imbarcò in un resoconto non troppo dettagliato dei miei regressi. Immaginavo che le stesse parlando con uno sguardo che sembrava voler enfatizzare la sua convinzione che avevo fatto molto male a scodellare ignobili menzogne. Con voce scura, criticò il mio atteggiamento rigettante e sostenuto, ma dovette rabbonirsi un po' quando mia madre sprofondò in una deflagrante serie di domande agitate.
<<È un rifiuto del disturbo. È abbastanza normale.>>
E poi:
<<Non è lecito attendersi miglioramenti miracolosi in così poco tempo.>>
<<Ma, dottore, sono trascorsi quasi due mesi...>>
<<Non c'è stato, a memoria d'uomo, nella mia carriera, un caso come quello di sua figlia. Signora, si calmi. Ecco, prenda un po' della mia tisana... oh, non le piacciono gli infusi, capisco. Credo, in ogni caso, che il suo periodo di latenza sia più lungo del previso.>>
<<Deve avere interessi esterni alla vita familiare.>>
<<Le sue visioni presto lasceranno posto a fatti reali.>>
<<Però, ecco, bisogna lavorare su quello che io chiamo il trapanamento della barriera: sua figlia crede di uccidere tutte quelle emozioni convulse preservandole dentro di sé. E invece no.>> Sentii un greve tintinnio: sfacciato, le aveva fatto calare sul palmo della mano il flacone di antidepressivi.
<<Sì, sì... una grave alterazione dell'equilibrio psichico. Forse. In quel caso, parleremmo di disturbi psicotici, in particolare quelli della senso-percezione. Mi ha parlato anche di allucinazioni?>>
In breve, la questione era la seguente: l'unica persona abilitata a far osservare le regole d'assunzione e le scadenze farmacologiche era mia madre e, forte di questa carica, lei uscì dallo studio con una nuova energia appuntata nello sguardo. Annuiva e ripeteva a bassa voce che il discorso del dottore non faceva una grinza. Ebbi l'impressione che, poco prima che mia madre si richiudesse la porta alle spalle, Ceccarelli mi avesse gettato uno sguardo intriso di sarcasmo astioso.
Dopo aver arrancato lungo le buche catramose del parcheggio con le sue nuove kitten amaranto, mia madre salì in auto, infilò le chiavi nel blocchetto d'accensione e si guardò intorno attraverso i finestrini appannati. Quando fu certa che nessuno delle sue conoscenze fosse nei paraggi, si esibì in una quieta retromarcia. Aveva scelto uno studio psichiatrico a Centocelle, lontano dal nostro quartiere, perché era opinione consolidata che chi si sottoponeva a simili sedute non solo fosse irrimediabilmente depresso, ma anche pazzo. E io lo ero. Nessuno doveva saperlo, diceva lei, e io le davo ragione. Non avrei voluto che i pettegolezzi altrui le dilaniassero quel cuore già sfibrato che aveva.
Un sole pallido calava sulle gru che dall'altra parte della strada si piegavano come stambecchi sulle nuove costruzioni. La guida di mia madre era lenta e tediosa, e nell'abitacolo era sospeso un odore asfissiante di aria consumata. Abbassai completamente il finestrino, ma mi fu subito ordinato di rialzarlo: sarebbe entrato troppo vento e l'auto avrebbe pericolosamente caracollato sulla carreggiata. Intanto, ogni volta che mia madre investiva un dosso, dalla sua borsa che sobbalzava sopra il freno a mano, avvertivo lo scampanellare degli antidepressivi dentro il loro flacone, e io inghiottivo a fatica la saliva, che scendeva bruciando lungo la gola, come scorrendo su sanguinolente sbucciature.
<<Stasera non ci sono>> esordii.
Prima che svanisse sul sedile, mia madre si voltò, gli occhi sgranati. Dato che guardava me e non la strada, la sua eccessiva prudenza, che aveva raggiunto picchi vertiginosi negli ultimi sei mesi, la indirizzò ad accostarsi verso il ciglio della strada. Mi studiò per un istante: sicuramente stava ripensando alle parole dello psichiatra. Interessi esterni alla vita familiare. Poi, però, sbatté le mani sul volante: <<Vuoi mettermi davanti al fatto compiuto, ragazzina? Dovresti chiedermi prima il permesso!>>
<<In qualche modo, l'ho chiesto già a papà.>> Le spiegai anche che lo avevo chiamato, chiedendogli di preparare quattro pizze giganti: per noi cinque sarebbero bastate. In realtà, non c'era stato alcun permesso accordato: mio padre non aveva mai considerato imprudenti le mie sortite da casa, né aveva una così spiccata prontezza di mente da accorgersi che quattro pizze giganti, per noi tre in famiglia, sarebbero state un'inusuale e generosa scorta fino a Pasqua. Era, nonostante tutto, un buontempone e non avrebbe mai permesso a dei sospetti insidiosi di incrostare la sua serenità.
<<È il compleanno di Alessandro. Gli abbiamo organizzato una sorpresa>>, addussi.
Ci fu un momento di silenzio, riempito solamente dal sussurro della radio, che soffondeva le note di Cambiare di Baroni. Mia madre sospirò. Ci fu un addolcimento nelle linee del suo volto: le ispirava simpatia il fatto che quel nome facesse sprizzare un bagliore turchese nei miei occhi. Per quanto fossi abituata a quel suono, non ero mai riuscita a sviluppare una certa imperturbabilità.
Un minuto più tardi stavo chiamando mio padre: tutte e quattro le pizze dovevano essere al salame piccante. Quel brio, quel fermento che mi aveva ora sconquassato doveva essere gustato anche sulla lingua.
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<<Suoni tu o suono io, cicciola?>>
<<Suona tu.>>
Stringendo la sigaretta tra le labbra, Riccardo premette l'indice sul campanello, poi si ritrasse alzando lo sguardo beffardo e perplesso verso il soprapporta a mezzaluna in ferro battuto. Mi passò la sigaretta e feci un tiro anche io. Nel complesso, era una villa in stile vittoriano dalle facciate rosa antico e le finestre a tutto sesto. Intorno cresceva un giardino un po' stepposo, che conferiva però all'insieme un'elegante e bizzarra ruralità. Pensai che i Manfredi dovessero essere come una leggenda per i rozzi e sempliciotti abitanti del viale.
<<Lo ami ancora?>> mi chiese improvvisamente Riccardo, dondolandosi sulle gambe con le mani nelle tasche.
<<Me l'hai chiesto una settimana fa.>>
<<Magari hai cambiato idea.>>
<<Non si cancellano dei sentimenti in sette giorni.>>
<<Hai ragione.>> Inspirò un'ultima boccata di fumo, assottigliando gli occhi verdognoli, e poi lanciò il mozzicone a terra, stritolandolo sotto una scarpa. <<Il fatto è che io certe cose non posso capirle.>>
Usava spesso termini neutri e generici. Parlava di cose, di una materia indefinita, come se volesse alludere che in realtà non capiva nulla di tutto. La sua voce, in quei rari momenti in cui era trattenuta dal pudore, non riusciva a pronunciare ciò che in realtà intendeva. Io l'amore non posso capirlo, avrebbe voluto dire, ma in quel caso sapeva che avrei ruotato gli occhi verso l'alto.
Sprigionando sospiri argentei dalla bocca, Riccardo suonò un'altra volta, in maniera più insistente. Poi aggiunse: <<E comunque, secondo me non stareste bene assieme. Voglio dire, Alessandro è alto come un negro. Tu sei bassettina.>> Mi guardò. <<Staresti bene con me.>>
<<Anche tu sei alto.>>
<<Sì, ma come un bianco.>>
<<O come un russo.>>
Sul suo viso albeggiò un sorriso orgoglioso. Si passò le mani tra i capelli ramati e si appoggiò ad una delle colonne di marmo che reggevano la veranda, le braccia conserte sotto il maglione blu egiziano, un po' stinto. Aveva, difatti, un che di quella monumentale robustezza russa che si esprimeva in un petto solido e in polpacci torniti, ma lo sguardo da beffeggiatore e la spruzzata di lentiggini che aveva sul naso smussavano un po' quella rigidità.
Un mormorio confuso stridette dal citofono. Emanuele sembrava apprensivo. <<Se non vi rispondo, significa che non avreste dovuto suonare.>>
<<Avremmo dovuto attirare la tua attenzione suonandoti una serenata? In quel caso, improvviserò. Affacciati alla finestra. Suonerò il piffero...>> lo schernì Riccardo.
<<Potevate mandarmi una lettera.>>
In toni volgari, Riccardo disse qualcosa a proposito della capacità di certe persone di nascere dal retto anziché da un'altra parte. Ero stata io ad insistere affinché si aggregasse anche lui, perché, nonostante Emanuele fosse un personaggio bislacco per entrambi, Riccardo vedeva in lui più un solitario strampalato da prendere come oggetto delle sue burle.
Fummo accolti dalla parvenza di un maggiordomo vestito di tutto punto. Sotto l'ombreggiatura dei baffi, si animò una bocca sottile: <<Avete il biglietto da visita?>>
<<Io forse>> rispose Riccardo, prima di indicare me, <<lei non so.>>
<<Intendo voi.>>
<<Appunto, voi... cioè noi.>>
<<No.>> Il maggiordomo arricciò il buffo naso camuso e si sporse verso Riccardo. Si guardò attorno, prima di sussurrare: <<Con voi intendo te.>
Riccardo deflagrò in un'espressione di sorpresa e la sua voce impennò di un'ottava. Tirò fuori qualcosa dalla tasca dei jeans: era la carta della palestra.
<<Mi alleno lì tre volte alla settimana, ma con il tempo sono diventato più un personal trainer per bambini scheletrici. E non diamo lezioni di ippica.>>
<<Personal trainer?>>
<<Dicasi così un maestro di danza.>>
Gli sganciai una gomitata e rimasi a fissarlo con l'altezzosità di una madre che rimbrotta il proprio figlio. Il maggiordomo si dileguò con passo rassegnato. In quel momento, mi prese un senso di nausea alla bocca dello stomaco: sembrava che da ogni angolo venisse esalato un profumo acuto, dolce e pungente.
Non avevamo mai capito da quale epoca fosse stata plasmata la stravaganza della famiglia Manfredi, se Settecento o Ottocento, oppure entrambe. Eravamo entrati in quella casa solamente un'altra volta, ma era stata una breve conoscenza che non ci impediva di stupirci ancora. Ci eravamo fermati nell'atrio -o meglio, nell'anticamera- e ne eravamo usciti con la sensazione di dover essere ghigliottinati da un momento all'altro.
Dava l'idea di una casa un po' sovraccarica di ninnoli, come se venisse costantemente abbellita, ma c'era il tocco lussuoso di uno stile impero. Dai soffitti pendevano lampadari di cristallo carichi di candele, che proiettavano luci soffuse su antichi mobili di legno -vetrine e inutili cassettoni-, di cui venivano messe in bella mostra le grezze venature. L'atmosfera era resa un po' cupa dalla copiosa presenza di quadri di arte romantica. Solamente alla parete del salotto erano appesi tre Turner. Poi venivano i corridoi, dove l'effetto era sdrammatizzato da un tocco di Impressionismo, ma si aveva comunque la paralizzante sensazione che Monet dovesse prima o poi scendere dalle scale.
Riccardo si avvicinò ad un pianoforte a coda collocato accanto ad una poltroncina di raso e fece scorrere le dita lungo i tasti bianchi, con estrema cautela. <<Ti piacerebbe se sapessi suonare, cicciola?>>
Non riuscii a rispondergli, perché fummo ricevuti dalla signora Manfredi. Era la fondatrice di un gruppo di rievocazioni storiche barocche, rococò e vittoriane. Nella capitale, però, non erano mai stati appesi manifesti di parate simili, quindi avevamo maturato la convinzione che il suo piccolo angolo di passato scorresse tra le mura di quella villetta, da dove sapevamo entravano e uscivano strane donne -spesso vedove anziane o nubili di mezza età che non sapevano come riempire la loro solitudine- tutte abbigliate secondo i canoni di epoche antiche. Era tutta uno sfolgorio di gioielli che finivano nell'avvallo dei seni e di capelli alla Maria Antonietta. Indossava un ampio vestito bianco, ma non così ampio come si sarebbe convenuto a Versailles, altrimenti si sarebbe probabilmente incastrata tra le strette scale a chiocciola che portavano ai piani superiori, quelli che Emanuele definiva gli appartamenti degli ospiti e della servitù.
Con un: <<Siete gli amici di mio figlio?>> ci ricevette invece il padre, l'aria delusa. Lui sembrava un dandy uscito da un libro di Oscar Wilde. Indossava una giacchetta corta con una lunga falda nera, che ricordava un pianista nevrotico, forse Beethoven. Sopra i pantaloni cachi a vita alta -che mi chiesi in quale negozio di Roma venissero venduti-, erano stretti un paio di lucidi stivali. Ci guardò circospetto, aggrottando la fronte e passandosi le dita sui favoriti ingrigiti. Poi spostò l'attenzione verso Riccardo e, quando gli fu accanto, gli restituì la carta della palestra. <<Questa dev'essere vostra.>>
<<Sì... è mia.>>
<<Volete un tè?>>, disse la signora Manfredi strabuzzando gli occhi.
Scuotemmo la testa. Riccardo mi sussurrò all'orecchio: <<Ma è dalla Seconda Guerra mondiale che non va più di moda. Mi aspettavo mi chiedesse di fumare un po' di tabacco. O di succhiare la pipa.>>
Emanuele scese dalle scale quando un tuono esplose nel cielo, per poi declinare nel fruscio monotono della pioggia. Aveva una zuccheriera tra le mani, che porse a sua madre. <<L'ho aggiustata.>>
<<Oh, ottimo. Perfetto. Con le tue manine di velluto puoi fare proprio tutto.>>
Aggiustandosi gli occhiali rotondi sul lungo naso a punta, Emanuele si avvicinò a noi. Mostrò sul palmo della mano destra un piccolo lapislazzulo. <<Secondo voi lo devo aggiungere alla mia collezione? Me l'ha regalato la zia. L'ha trovato in Austria.>> Dopodiché, alzò il minerale verso di me e lo accostò alla mia tempia. Guardò Riccardo. <<Non trovi che somigli al colore dei suoi occhi?>>
<<Come raggiungerete il vostro amico?>> fece la madre.
<<Con la mia Ford Ka>> rispose Riccardo.
<<Come?>>
<<Il mio amico intendeva dire che andremo a piedi. Una passeggiata salutare.>>
Per quanto la famiglia Manfredi non potesse approvare uno stile di vita che tenesse conto della modernità, alla fine salimmo furtivi nell'auto di Riccardo correndo sotto la pioggia, prima che il padre di Emanuele si affacciasse ad una delle finestre.
Uscimmo dal Tuscolano sballottati di qua e di là, mentre una cortina d'acqua colava sui finestrini in tanti piccoli fiumiciattoli. Riccardo stringeva il volante con fare irrequieto, calava nervosamente la mano sul cambio marce, imprecava quando rimanevamo imbrigliati nel traffico prima delle rotatorie, pigiava costantemente le dita sulla radio e, quando conveniva che nulla lo soddisfaceva, si distraeva inserendo un nuovo CD ogni dieci minuti. Quando imboccammo la tangenziale, Roma languiva nei primi uggiosi tramonti autunnali, disperdendo, come un vecchio uomo stanco, travestite dalle ultime e pallide luci del giorno, le proprie energie in un cielo folto di nubi.
<<Di questo passo non arriveremo mai>> sentenziò Emanuele.
Riccardo guardò lo specchietto retrovisore. <<Hai ragione. Avremmo dovuto prendere la carrozza. Però ora renditi utile, dato che con le manine di velluto ci sai fare.>> Sollevò il bacino e si sfilò il cellulare dalla tasca. Glielo lanciò. <<Cerca in che via stanno gli Altieri. Anzi, no. Ci deve essere un'edizione di Pagine Bianche nel sedile vicino al tuo. Però attento a non schiacciare le pizze. Guarda lì, altrimenti diventi troppo tecnologico.>>
Emanuele abbassò la fratta di capelli castani e frugò accanto a sé a tentoni. <<È questa?>>
<<No, quella è una scatola di preservativi. Quelli che tu non userai mai.>>
<<Smettila di bullizzarmi.>>
<<È un termine abbastanza recente, come fai a conoscerlo? Attento a non usarlo in presenza dei tuoi antenati della Savoia, potrebbero disconoscerti.>>
<<So io dove abita Alessandro>> mi intromisi.
<<Come lo sai?>>
Quando Riccardo si voltò, gli dissi che giravano talmente tanti matti per strada, che sarebbe stato fatale se si fosse distratto anche solo per un momento. In realtà, avevo la sensazione di non essere posto quando mi guardava con quei suoi occhi interrogativi, come se avessi una ciocca che sfuggiva da una complessa acconciatura o il rossetto che sconfinava dalla linea delle labbra. Non volevo dirgli che avevo seguito più volte Alessandro mentre tornava a casa dalle lezioni di scherma, ma forse me lo lesse in viso. L'unica persona che non avrebbe dovuto sapere di quell'amore anonimo e piacevolmente sofferto, era l'unica a saperlo, forse perché prendeva come metro di paragone l'atteggiamento che mi differenziava quando ero in compagnia dell'uno e quando dell'altro. Credevo che se avessi parlato, le mie parole gli avrebbero intirizzito i lineamenti, invece rimaneva sempre lo stesso, anche se a volte avevo l'impressione che vagasse una certa rabbia nei suoi occhi. Fatto come era fatto, però, doveva commentare la faccenda con qualche frase sarcastica o con sguardo canzonatorio, perché il suo principio di fondo era usare lo stesso accento sia nelle situazioni che amava, sia in quelle che detestava, in modo da non diventare laconico quando qualcosa lo feriva. A volte ci riusciva talmente bene che mi domandavo se esistesse davvero qualcosa potenzialmente in grado di turbarlo.
<<Abita in una traversa di Via Trionfale>> dissi. <<Te la indicherò.>>
<<E dov'è?>>, chiese Emanuele.
<<A Monte Mario.>>
<<A Monte Mario? Ma lì vive gente ricca.>>
<<Non lo sapevi? È per tipi come lui>> soggiunse Riccardo. Poi mi guardò. <<Non è certo dell'Ostiense come me e te.>>
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La gocce di pioggia si stavano perdendo nel buio. Lontano ululava solitario l'allarme di un'auto. Irrigiditi, infreddoliti e senza ombrelli, ce ne stavamo impettiti davanti casa di Alessandro, ognuno con un cartone di pizza tra le mani, ad eccezione di Emanuele che non aveva nulla, perché Riccardo non si fidava e ne aveva scaricato uno al fotografo che accompagnava Carla. Lei ci aveva raggiunto sulla moto di lui, ne era scesa con un balzo e, con un movimento del braccio che nascondeva un esaltato intento esibizionistico, ce lo aveva presentato. Non riuscii a capire che cosa avesse trovato di attraente in Javier, e anche gli altri dovevano essersi interrogati sul medesimo punto. Il viso largo e severo gli conferiva fattezze quasi belluine e lo privava di qualunque armoniosità mediterranea. Gli occhi erano piccoli come due bottoni e avvolti da palpebre pesanti, il naso sproporzionatamente lungo e il mento lievemente protruso verso destra.
<<Non vuoi scattare una foto alla casa?>> fece Carla, toccandogli la macchina fotografica appesa al collo. <<Potresti aggiungerla alla tua collezione di scatti di moderne ville americane.>>
<<Rustico americano, non moderno>> puntualizzò Javier, compitando lentamente le parole. <<Quelle moderne... verdaderamente horribles. Una modernità troppo... enfatizzata, troppo squadrata, troppo geometrica. Tutto in vetro! In vetro! È gelido, il vetro. È freddo, non comunica nulla.>>
<<Ma io non mi riferivo a quelle ville dove le luci della piscina sembrano meduse fosforescenti che ti inseguono sott'acqua. Piuttosto quelle da telefilm...>> Ma Javier la interruppe.
<<E poi hanno i soffitti bassi. Mi ricordo quando sono andato a Detroit e...>>
Nessuno di noi lo ascoltò più. Non si concedeva mai una boccata d'aria mentre parlava -e non poche volte miscelò in maniera bizzarra spagnolo e italiano-, nella furia di fornire informazioni ampie e dettagliate sul suo viaggio americano.
Carla roteò gli occhi al cielo e scrollò le spalle. Non c'era occasione speciale o diversa dall'ordinario che le impedisse di infilare nel suo abbigliamento un po' del suo stile country. Portava una borsa di cuoio appesa alla piegatura del gomito, tenendola distante dal busto, come se fosse preziosa e fragile. Alla scollatura del vestito bianco di cotonina era invece agganciato un paio di occhiali dalla grande montatura quadrata, che non abbassava mai sul viso per non nascondere il vistoso trucco sulle tinte del blu, che poco si accordava sia al vestiario che agli occhi nocciola. Si calcò in testa il cappello di paglia a falde larghe e con gli stivali di pelle a punta inzuppò un piede in una pozzanghera del marciapiede.
Sotto l'influsso iniziale di una grande sorpresa, non riuscimmo a dire molto. Come dei fedeli davanti ad un luogo di culto, ci apprestammo a mostrare la nostra deferenza con delle espressioni vaghe e strabiliate. Riccardo prese la sigaretta che aveva in bocca e la allungò verso la pioggia per spegnerla. Poi la gettò in un tombino. Fissò i cartoni di pizze. <<Speriamo almeno di ispirare una certa simpatia, altrimenti dovrà essere una somma sfortuna per loro accogliere dei poveri. Con del cibo da poveri.>>
Non consideravo la pizza un cibo da poveri: mio padre, con la sua pizzeria alla Garbatella, era riuscito a raggranellare una piccola fortuna che custodiva in banca, un assegno che avrei riscosso quando fosse giunto il momento di andare all'università. Quindi, per me, la pizza era come l'emblema di un riscatto, di un'affermazione come donna adulta, anche se ero ben lontana dalla convinzione che ciò si concretizzasse, perché prima avrei dovuto avere delle salde ambizioni, e io non ne avevo neppure una.
<<Quattro barboni alla Casa Bianca>> commentò Carla con aria trasognata.
E bianca, la villa degli Altieri, lo era davvero. Dietro un colossale cancello di ferro battuto, il lussuoso rifugio a due piani di Alessandro si affacciava su un piazzale adibito a parcheggio, delimitato da un giardino con palme e catalpe che correva tutt'intorno. Inserite in quel grazioso schema paesaggistico, c'erano anche alcune pietre e rocce, alle spalle delle quali Riccardo ipotizzava si nascondesse qualche violento segugio di grandi dimensioni. Sotto un lungo porticato, lo schiaffeggio del vento faceva dondolare un'amaca dal sapore orientale. Un lampo scoprì le lucide vetrate delle finestre in perfetto stile contemporaneo, e anche una Mercedes nera decappottabile.
<<La sua stanza non è illuminata>> dissi.
<<Allora probabilmente non è in casa>> fece Emanuele.
In un labile momento, come un fotogramma, mi passò alla mente l'immagine di Alessandro seduto a tavola, le gambe inclinate sotto la sedia, le dita che giravano con cadenza monotona forchetta e coltello. Sembrava preoccupato e sconfortato, nel suo pallido sorriso di circostanza. Teneva lo sguardo fisso sulle scale che avrebbero dovuto guidare al piano superiore, come se volesse rincantucciarsi nella sua camera e sfuggire ad una situazione angusta.
Suonammo e un portoncino d'accesso ci fu aperto. Qualcuno della famiglia doveva averci visto attraverso quel complicato apparato di videosorveglianza di ultima generazione. Anche quando salimmo i gradoni che portavano all'ingresso io procedevo con passo ponderato, sentendo la pioggia sferzarmi il viso come una sciabolata che mi avrebbe purificato, e degustando la sensazione di addentrarmi in una dimensione priva di corruzione. Doveva essere simile raggiungere la vetta di un monte dopo una perigliosa scalata oppure arrivare alle porte del paradiso.
Alessandro si manifestò alla porta in tutta la sua raffinata possanza, come un prepotente squarcio luminoso in un cumulo di detriti e polvere. Sia che fosse a casa, che camminasse per strada o che fosse nella metro, reggeva quasi sempre un foglio tra le mani -solitamente appunti di scuola-, e lo guardava con faticosa meditazione e silenzioso interesse. Ora, invece, le sue mani erano libere, indiscutibile segno che, se non stava studiando, doveva essere successo qualcosa di insolito e rivoluzionario. In effetti, la sua espressione era carica di un'apprensiva perplessità. Lo colse un improvviso spavento, quando disse: <<Ciao.>>
Vedendolo, mi sentii sprofondare in un focoso tepore, per cui la pioggia che mi aveva inzaccherata, intorpidita e inzuppata diventava solo un rivestimento, una pellicola che non sentivo più a contatto con la pelle.
<<Dovrai accontentarti di quattro pizze umide. Avremmo voluto regalarti un Chihuahua, ma non è un cane da ricchi, piuttosto da sbruffoni vanitosi. E poi ti avrebbe sporcato tutta casa. Diavolo, ma c'è una parete colorata qui? Sono tutte bianche... È la casa del paradiso? Anzi, no: è la Casa Bianca, vero, cicciola?>> Riccardo gli fece piombare una mano impregnata d'acqua sulla spalla e gliela strinse con gesto amichevole. Avanzò sfacciatamente di un passo, ma Alessandro lo fermò posandogli una mano sul petto. Poi si voltò verso il punto dal quale stava provenendo un lieve tramestio di sedie. Ci fu un offuscato sommovimento alle sue spalle. Quando tornò a guardarci, sul suo viso era subentrata una certa inquietudine. Non ero ancora riuscita a capire se somigliasse di più ad una statua greca o romana. Nel primo caso, immaginavo avrebbe dovuto avere gli occhi azzurri, invece la fitta complessità dello sguardo veniva convogliata in due penetranti occhi neri, che non conoscevano altre sfumature cromatiche più chiare: erano solamente neri.
Ciocche bionde gli sprofondavano sulla fronte, a tenaglia, proprio come le statue di Augusto. Quando si fletteva, aveva il corpo del Discobolo; quando si slanciava, alto, in una posa di sussiego, era il Doriforo. Il collo e le spalle, invece, dovevano essere stati scolpiti da Lisippo. Nei miei studi, mi ero concentrata solamente sull'arte greca e romana: trovavo fossero le uniche a cui potessi attingere per descrivere meglio lui. Dall'arte bizantina in poi, non avevo aperto più pagina.
Ci fece entrare. Fummo indirizzati verso una grande cucina che privilegiava minimalismo e semplicità, con arredi rigorosamente bianchi. Non lasciai che il mio viso tradisse ciò che provai quando Alessandro, in un gesto un po' imbarazzato che voleva essere cordiale, mi poggiò una mano sulla schiena e disse ai suoi genitori: <<Loro sono i miei amici.>>
Ma io, in quel momento, mi estraniai da tutto e da tutti e immaginai che, in un futuro non troppo lontano, la scena si sarebbe ripetuta, ma lui avrebbe detto: Mamma, papà, lei è la mia fidanzata. Non ragazza, ma fidanzata, perché gli Altieri erano tradizionalisti e in ogni parola era conservata un po' di quell'antica eleganza. E io avrei sorriso ai miei futuri suoceri proprio come stavo facendo in quel momento, ma senza indossare né felpa né scarpe ginniche. Avrei dovuto -e voluto- somigliare a quella bambola di porcellana che vedevo poggiata accanto ad una foto di famiglia, sulla mensola vicino al frigorifero: ad Alessandro piaceva l'eleganza. Alessandro era un soldato.
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Spazio autrice:
Tutte coloro che già mi conoscono sanno bene che avrei dovuto pubblicare questa storia molto tempo prima. E mi dispiace per il ritardo, davvero, ma volevo essere sicura del nuovo percorso che stavo intraprendendo.
Ebbene, questa è la storia: questo primo capitolo è servito principalmente per introdurre i personaggi. I prossimi saranno molto più focalizzati sulle vite di ciascuno di loro. Spero davvero che ne siate rimasti soddisfatti. Se il capitolo vi è piaciuto, votate, e fatemi sapere che ne pensate nei commenti! Aggiungetela alla vostra biblioteca se vi va!

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