1 - Quel maledetto lunedì

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Mr. Jenkins non fu il primo a morire. Una fine crudele e inaspettata era toccata a migliaia di individui, solo negli Stati Uniti, nei minuti che avevano preceduto il tremendo schianto a St. Olive, Illinois.

"La fine del topo in gabbia", avrebbe detto la nonna, pensando a tutti quei poveretti che erano morti negli stessi brevi istanti e per la stessa assurda ragione. Alcuni con moglie e figli, altri assieme ai colleghi di lavoro o con i compagni di scuola. Ma i più in solitudine, chiusi in bare di lamiera e cristallo, pelle e radica, plastica e microchip.

Sacrifici umani al dio della tecnologia e alla nostra incrollabile fede nella sua infallibilità. Danni collaterali che qualcuno aveva ritenuto di poter tollerare per un bene superiore: il potere.

Non impiegai molto tempo ad avere la conferma di quella sconvolgente verità: ciò che era accaduto allo scuolabus su cui viaggiavo non era affatto un caso isolato. Non c'era più un solo cellulare, un computer o un televisore funzionante, ma scoprii presto che il nostro non era stato l'episodio più grave . Avevamo evitato che diventasse una delle tante immani tragedie di quel giorno solo perché i ragazzi a quell'ora erano pochi e quasi tutti seduti nelle ultime file.

Ma andiamo con ordine.

Era lunedì mattina e la consueta piccola coda di auto si stava formando sulla via principale di St. Olive, un paesino adagiato fra la Route 66 e la linea ferroviaria diretta a Staunton. Fra i veicoli spiccava il nostro scuolabus, che procedeva a passo d'uomo.

Io ero lì, assonnata e infreddolita, solo pochi sedili dietro quello di guida, quando la luce si spense e il grande veicolo giallo restò incolonnato proprio sulle rotaie, al passaggio a livello, con il motore improvvisamente muto. E questa fu la prima sfortuna di Mr. Jenkins. "Proprio il segno che se uno deve morire non c'è santo a cui appellarsi", avrebbe detto la nonna.

Inutile fu ogni tentativo di riavviarlo e ogni conseguente imprecazione di Mr. Jenkins, tanto ostinato da non considerare, nemmeno lontanamente, l'idea di farci scendere e proseguire a piedi. Lui era il comandante assoluto di quel mezzo, su cui prestava servizio da oltre dieci anni, e non tollerava malfunzionamenti o consigli. E questa fu la sua seconda sfortuna, anche se "a volte bisogna recitare il Mea Culpa", avrebbe sentenziato la nonna al riguardo.

Fu nell'assoluto buio che il convoglio minerario delle 7.30, a fari spenti, piombò dove le rotaie incrociavano l'asfalto, strappando via, in un assordante stridio di lamiere, la cabina di guida allo scuolabus e la vita al suo conducente. E questa fu la terza e più grande sfortuna di Mr. Jenkins, "che Dio lo abbia in gloria", come avrebbe concluso la nonna.

Come avrete capito da soli, e in caso contrario dovreste proprio farvi vedere da uno bravo, io vivo con mia nonna, che ha un detto per ogni occasione. Alcuni penso che li inventi al momento, a seconda delle circostanze, ma, a parte questo vizio, è una gran brava donna e da otto anni mi fa da mamma e da papà.

Non era a questo, però, che pensai quella mattina, quando strisciai fuori da ciò che restava dello scuolabus e mi trascinai verso casa, coperta di vetri e sangue, disorientata nel buio, rischiarato solo dalle alte fiamme che si levavano dai rottami della cabina.

Pensai che le urla sconvolte che venivano dai miei compagni di scuola e dai passeggeri delle auto fossero la normalità, in quelle circostanze. Mentre il silenzio che faceva da muto sottofondo, l'immobilità dei veicoli, il buio completo fino all'orizzonte e il treno, che aveva continuato la sua corsa fra le scintille delle lamiere sradicate, rappresentassero qualcosa di alieno, che sfuggiva alla mia comprensione.

Non fu proprio un pensiero, più una sensazione, direi. Ma molto netta. O forse un ricordo sfuggente. Qualcosa di cui, in passato, dovevo aver sentito parlare in famiglia. Questo però lo realizzai solo tempo dopo...

Il mio unico istinto, nella situazione in cui mi trovavo, fu quello di voltare le spalle al caos e alla gente che arrivava, per correre in cerca dell'unica persona che si sforzava sempre di capirmi e su cui potevo veramente contare.

Quando giunsi a casa e Joe, il nostro cane, si mise ad abbaiare, la nonna uscì dalla cucina e mi venne incontro. "Gesù benedetto che sei nei cieli", fu il suo unico commento, prima di aiutarmi a togliere lo zaino e abbracciarmi forte. Era così bassa che ormai era lei ad appoggiare la sua testa sul mio petto, ma sentire il suo rassicurante profumo di buono e i suoi candidi capelli sulla guancia mi fu di grande aiuto, per sciogliermi nel pianto liberatorio di cui avevo tanto bisogno.

Terminato il racconto di quanto era accaduto, lasciammo il portico ed entrammo in casa. Solo in quel momento realizzai che non c'era energia elettrica e che la fioca luce della cucina veniva da un vecchio lume a olio, rimasto per chissà quanti anni inutilizzato sulla mensola.

Nonna Elsa mi ripulì con cura il sangue dal viso e dalle mani e mi tranquillizzò dicendomi che si trattava solo di qualche taglio superficiale. Ero stata molto fortunata, ma lei non mostrava segni di sollievo. Al contrario vidi sul volto della nonna l'espressione risoluta che conoscevo bene, quella che assumeva nelle situazioni difficili, le molte che aveva dovuto affrontare nella sua lunga e dolorosa vita. Facendo attenzione a non buttare a terra gli ultimi vetri rimasti incastrati nel tessuto, mi tolsi il giubbotto e mi guardai intorno in cerca di spiegazioni.

"Jenna, vieni con me", mi disse uscendo nuovamente sul portico e scendendo le scale in direzione del vecchio capanno in disuso.

In realtà il mio nome è Miranda, ma tutti mi hanno sempre chiamato Jenna. Di me posso dirvi che ho sedici anni, sono figlia unica e che i miei genitori erano due belle persone, che mi amavano molto e si preoccupavano sempre della mia incolumità. Molto meno della propria, purtroppo, dato che sono morti in uno spaventoso incidente stradale otto anni fa, di ritorno dal centro commerciale.

La seguii nel retro di casa, rischiarato dalle prime luci del giorno, mentre mi parlava con tono militaresco dei suoi progetti immediati, come se fosse un comandante al fronte. Forse frutto dei tanti racconti di guerra di suo padre che, ancora ragazzo, si era arruolato volontario e aveva combattuto in Europa, nelle Ardenne, riportando a casa una medaglia al valore. Era uno forte, il bisnonno.

"Abitare in una vecchia casa isolata ha anche i suoi vantaggi", disse la nonna, armeggiando sotto un pesante tendone. "Tienimi la torcia, per favore."

Mi passò la preziosa fonte di luce e diede un brusco strattone alla corda di accensione di un macchinario, che si avviò con un rumore assordante e un fumo nero e denso come quello di un vaporetto.

Il generatore fece subito il suo dovere e il capanno fu rischiarato da una vecchia lampadina, al pari del portico e della casa, il cui impianto, da quel momento, era alimentato da una fonte autonoma di elettricità.

"Per fortuna tua madre aveva fatto un buon lavoro. È fermo da otto anni ma è partito al primo colpo", disse Elsa. "Era una donna in gamba."

"Ma come la mamma? Pensavo fosse una vecchia attrezzatura del nonno", risposi io, sorpresa.

"È così infatti. Risale agli anni Settanta, quando tutto era più semplice, senza elettronica. Un bello strappo alla corda e un motore si avviava. Non serviva nient'altro. Tua mamma si era impuntata perché non comprassimo diavolerie moderne. Voleva un vecchio oggetto in grado di funzionare sempre e l'aveva fatto revisionare attentamente. Era costato più di uno nuovo, alla fine, ma aveva ragione, un po' di luce è proprio quello che ci serve, in questo momento. Ora torniamo in casa. Ho un terribile presentimento, ma prima di parlartene voglio delle conferme. E preghiamo che mi stia sbagliando."

Operazione Carrington - Primi capitoliWhere stories live. Discover now