Capitolo 2

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Mamma era andata via da me. «Devo fare la spesa» disse, affidandomi a una sconosciuta di nome Susy. Lei era la nostra vicina di casa, ma non mi piaceva per niente, perché i suoi occhi marroni e piccolissimi erano sempre incollati al telefono senza nemmeno guardarmi, poi parlava troppo veloce o urlava quelle poche volte che diceva qualcosa, poi aveva i capelli neri lisci che non faceva altro che tirare indietro o arrotolare intorno al dito, creando un effetto riccio. Lo faceva talmente tante volte che mi dava troppo fastidio. Mamma glielo aveva detto di me, ma lei non aveva ascoltato. Questa nuova città per me era un posto pericoloso, oscuro, ma per mamma era "una nuova opportunità" lo diceva sempre e sempre, solo che a me sembrava peggio. L'Arizona mi piaceva tanto, quelle forti piogge mi facevano stare bene il più delle volte, mentre qui a Miami c'era solo sole, ed eravamo quasi a Natale. Non esisteva la neve per loro? Babbo Natale viveva al mare? Beh, io non credevo all'uomo grassone che entrava dal camino, non mi piacevano gli uomini col pancione, mi facevano paura, erano spaventosi, una volta vidi un film con un uomo mangia-bambini ed ero convinto e gli uomini fossero grassi per questo, quindi io gli stavo lontano e sempre attaccato a mamma per non essere preso. Ero furbo, mica scemo. Lasciai stare quella ragazza e andai in camera di mamma. Nel terzo scatolone c'era ciò che mi serviva, lo presi in mano, andando poi in cucina.

Diedi un'occhiata a lei vedendo che stava ancora sul suo telefono premendo tasti sopra tasti e creando tick tick rumorosi. "Uno, due, tre via..." Posai il cacciavite – avevo scoperto si chiamava così, quell'affare che serve a smontare le cose – sulla vite – quella specie di chiodo che teneva attaccate le cose che il cacciavite smontava – e gira, gira, gira, finché non cadde a terra. Ancora il secondo, poi il terzo, poi il quarto. Le viti cascarono a terra accanto a me, vicino a loro cascava anche il legno a mezzo. Non staccavo tutto, ne toglievo solo due in modo tale che non cascasse a terra e facesse troppo rumore richiamando l'attenzione degli altri. Lasciavo ogni mobile per metà in aria. Mi piaceva farlo, non sapevo ben dire il perché. Mi piaceva e basta, a volte non esistono i perché per certe domande. Dicono che non è "normale", a me però non sembrava niente di strano, io smontavo a metà e rimontavo quando stavo bene, perché si arrabbiavano sempre? Non ne avevo idea. Erano strani loro, sempre contro il mondo, come se tutti fossero nemici di tutti. Io continuavo a non capire. «Marmocchio?» Susy venne finalmente da me guardando quello che avevo fatto. Si portò la mano alla bocca come faceva chiunque, aprì gli occhi tanto che mi fece paura e fece molti passi indietro finendo contro la porta nuovamente. «Cosa hai fatto?» gridava. Mi sentii subito in colpa. Prima che lei venisse, a me piaceva girare le viti fino a farle cascare, quel suo sguardo però era forte anche per me. Andai veloce in camera mia. Sentivo lo stesso le sue urla, sentivo il rumore delle macchine sotto casa mia, sentivo il cuore che batteva, sentivo gli uccelli volare. Troppa confusione. "Basta", mi chiusi in me nei piccoli gesti in cui potevo farlo. I medici dissero a mamma che avevo qualcosa di nome "artisto" no, non era così... "autismo", era quella la parola sì, sorrisi fiero per essermela ricordata e mi buttai sul letto. Non sapevo cosa volesse dire in realtà, ma per come mi guardava mamma ogni volta, presi quella parola come un suono spaventoso. Le persone mi guardavano e si impaurivano poi urlavano anche più di me. I "normali" sono più matti di me. Il mondo è un posto cattivo, però l'avevo capito io, ero stato furbo, ero scappato via. Non volevo essere preso. La porta di casa si aprì. «Mike, dove sei?» diceva mamma senza essere entrata veramente. Scesi di corsa dalle scale, guardando un po' alla volta ciò che avevo combinato in cucina, preparandomi alle urla. «Quando?» disse mamma, stavolta a Susy. «Io stavo tranquilla e poi lui ha cominciato a smontare mobili, ho provato a fermarlo, ma non ci sono riuscita insomma... è scappato» inventò lei. Non ci aveva provato a fermarmi, era fissa a guardare il telefono, non mi considerava nemmeno. Guardai mamma cercando di farle capire come mi sentivo, cercavo i suoi occhi verdi... ma nulla. I "normali" mentono sempre, dicono tante bugie. Non posso fidarmi delle bugie. «Mike, è vero?» chiese poi a me come se avesse capito dal mio sguardo. Volevo dire la verità, ma non ci riuscivo. Tutte le parole che avevo in testa io non riuscivo a tirarle fuori, come se fossi bloccato da un grosso muro e le lettere si mescolavano in me, e io non riuscivo mai a dire niente di niente. Feci di no con la testa, l'unico gesto che potessi fare. «Okay» disse poi mamma tornando a sgridare Susy su qualcosa. Tornai in camera mia. Quella stanza troppo grande per me, quei muri color celeste con i mobili – pezzi di legno dove dentro ci tieni cose, come i vestiti – grandi che mi facevano sentire piccolo. Mamma però non capiva, non si rendeva conto che mi faceva male. Papà se ne era andato, questo era l'unico, principale motivo per cui eravamo in questa grande città di nome Miami. Mentre Eliot era via per lavoro. Veniva solo per poco tempo, mi abbracciava e poi andava ancora via, poi tornava, poi andava. Nemmeno una cosa stava ferma con me. Ancora una volta mi buttai sul letto e mi coprii con le mani per non sentire i rumori. «Mike, piccolo vieni giù» mamma di nuovo con la sua dolce voce, mi chiese di scendere. Io non ero pronto però. «Mike...» sentivo che saliva le scale. Aprii la porta e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Mamma nemmeno voleva me, cioè mi voleva bene, ma piangeva sempre e sembrava non sapesse cosa fare, forse era colpa dei medici che le avevano detto cose strane su di me... non lo sapevo, mi trattavano tutti male qui. Ma cosa avevo fatto io a loro? "Fallimento" mi aveva chiamato papà prima di andarsene. Ecco ciò che sono. Quando lo chiesi a Eliot, mi disse che fallimento voleva dire disastro e io per papà ero un disastro. Se ne era andato per colpa mia. «Mike» chiamò di nuovo mamma «ho una sorpresa per te, voglio fare una festa di benvenuto, ci saranno anche tanti bambini». «Sììì» risposi subito alzandomi dal letto e abbracciandola forte, mi piacevano le feste con i bambini, potevo giocare e ridere con loro. I bambini potevano capirmi. Il giorno dopo, tutto era organizzato da mamma, vennero tantissimi bambini e mamme e papà a stare con noi. Tutto sembrava andare bene, mi avevano anche portato dei regali. Alzai le mani in alto e iniziai a muoverle, voleva dire che ero felice, mi veniva naturale farlo. Io alzavo le mani e loro si muovevano veloci veloci. «Ciao» disse un bambino a me. «Caio» risposi io, capendo solo dopo che avevo sbagliato a dirlo. Allora mi concentrai meglio, ma sembrava non venire la parola giusta. «Ciao» ridisse il bambino. «Sì» risposi io. «Giochiamo?» Feci di sì con la testa, e andammo a giocare in camera mia che era pieno di giochi, ci seguirono anche altri bambini, mentre i grandi rimasero giù a parlare e fare le loro cose. «Come ti chiami?» chiese uno di loro. «M-Mike». «Io sono Derek» disse il bambino, poi si girò per prendere le mie macchine e con gli altri iniziò a fare un percorso, sul letto e sui muri. Con le mie macchine. Gli andai vicino e lo spinsi, cercando di prendere la mia macchina rossa. «Mia» dissi solo. «Stiamo giocando» rispose lui. «Mia» ripetei a voce più alta. «Vieni a prenderla» mormorò e corse per tutta la mia stanza mentre gli altri ridevano e ridevano e ridevano. Sentivo un forte mal di testa e le loro voci si mischiarono a troppi rumori che sentivo soprattutto quando le cose non andavano bene. «Bastaa» gridai, ma sembrò non bastare, loro continuavano. Perché erano tutti cattivi con me? Mi avvicinai di nuovo a lui e lo spinsi forte che cascò a terra, poi gli presi la macchina, che era mia. Lo guardai e sorrisi, ora potevamo giocare di nuovo. Io avevo la mia rossa, come il fuoco, dello stesso bellissimo colore. Il bambino però non sembrava essere d'accordo. Si alzò e mi spinse forte facendomi sbattere da qualche parte. Lo fissai per un secondo e prima che potesse riprendersi la mia macchinina, io urlai forte. Lo volevo solo allontanare da me, mi dava noia averlo addosso, poi voleva prendersi ciò che era mio. «Mike» mamma urlava dalla porta di camera mia e da lontano il bambino mi guardò male. «Insegni i modi a suo figlio» disse quella che pensavo fosse la mamma di Derek. «Insegni lei a non mettere le mani addosso a mio figlio» rispose poi la mia mamma e io la abbracciai, ma durò poco, perché appena andati via gli invitati se la prese con me. «Non puoi fare così, volevano essere tuoi amici...» Miei amici? Non si rubano le cose agli amici. Le mostrai la macchina, ma sembrò non capire. «Mia» dissi solo e mamma sospirò. Odiavo quel respiro che faceva capire la stanchezza. Mamma stanca di me, non ne poteva più, ma io non potevo farci niente, se a me dava noia una cosa, la tiravo fuori, non m'importava a cosa pensassero. Questo era normale per me, perché per loro no? «La prossima volta, cerca di stare più calmo, non puoi picchiare le persone, Mike, è sbagliato». «A-anche prendere le mie c-cose» dissi e lei sembrò sorpresa. «Okay, va bene» disse solo e tornò in salotto, probabilmente per piangere. Mamma lo faceva sempre e sempre e sempre, io volevo farle cambiare idea, farla sorridere e invece nulla, lei sembrava triste. Pensavo sempre c'entrasse papà, che aveva distrutto anni fa la nostra famiglia. «Mike, vieni a vedere i regali?» chiese poi mamma, ma io non volevo aprire i regali, magari di Derek, io volevo stare nella mia stanza a guardare il soffitto color cielo, senza pensare ad altro e infatti mi addormentai.

*Spazio Autrice*
Salveee,  come avete visto questi sono i pensieri di Mike, i capitoli dal suo punto di vista saranno più incasinati, ma spero comunque sia chiaro.  Cosa ne pensate di lui? Aspetto i vostri commenti, non dimenticatevi di votare ❤

Per maggiori informazioni sulla storia seguitemi nella pagina Instagram: aurora_hazizaj_scrittrice


Il sapore di una rosa blu. L'amicizia Where stories live. Discover now