Trembling hands touch skin.

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*Attenzione: i comportamenti dei personaggi descritti nella fan fiction non sono assolutamente da imitare: quello che fanno e pensano spesso è sbagliato. Con questo mio scritto pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo*


Trembling hands touch skin.


Mancava qualche minuto alle cinque ed io avevo appena finito di riordinare la cucina. Sapevo che mia madre e Frank non sarebbero tornati dal lavoro prima di cena, così non avendo nulla da fare mi ero messa a sistemare un po’ la casa, data la visita di Tomlinson.

Okay, lo ammetto. Il solo pensiero che un ragazzo diverso da Harry, Zayn, Niall o Liam mettesse piede in casa mia mi destabilizzava, irritandomi notevolmente. Ero confusa, avevo passato le ore davanti all’armadio pensando a cosa mettere ed, alla fine, avevo optato per qualcosa di semplice e davvero poco provocante. Insomma, come non mi sarei mai vestita se a farmi visita fosse stato uno dei ragazzi.

Suonò il campanello e corsi ad aprire, trovandomi davanti la figura alta e slanciata di Louis.

«Ehi.»

Mi salutò dandomi una pacca sulla spalla e un bacio sulla guancia. Sgranai gli occhi e mi irrigidii a quel contatto ma non dissi nulla, non potevo prendermela con lui: non sapeva che avevo paura di essere toccata.

«Ciao.»

Dissi io, scansandomi per farlo entrare in casa. Fece il suo ingresso guardandosi un po’ intorno, ispezionando salone e cucina, le uniche due stanze al piano terra.

«E’ carino qui.»

Commentò, con le mani in tasca.

L’imbarazzo – soprattutto dopo il litigio tra lui ed Harry – era palpabile.

«Andiamo a studiare?»

Chiesi diretta, evitando di fare strani giri di parole, strane presentazioni o, peggio, strani giri della casa. Non mi andava per niente di studiare ma ero convinta che sarebbe stato l’unico modo per rompere il ghiaccio e per far evaporare poco a poco tutto l’imbarazzo che si era creato nella casa.

«Iniziamo da Inglese?»

Annuii distratta, estraendo i numerosi e pesanti volumi della letteratura Inglese dalla libreria affianco al mio letto.

«Stiamo studiando gli autori del novecento.»

Risposi con una punta di fierezza, ma solo perché pochi minuti prima che suonasse al campanello avevo dato una sbirciatina al libro, altrimenti non avrei saputo dirgli neanche cosa comprendeva il programma dell’anno precedente.

Iniziai a leggere, incamerare le informazioni e ripetere. Era moltissimo che non studiavo e – devo ammettere – un po’ mi mancava. Mi mancava la conoscenza, il sapere, mi mancava la curiosità. Stavo studiando solo perché c’era quello studente universitario lì con me che non faceva altro che osservarmi e correggermi mentre ripetevo, eppure non riuscivo a non pensare a quante informazioni mi fossi persa non studiando durante tutti quegli anni.

Harry me l’aveva proibito, diceva di non voler stare insieme ad una sfigata.

Se Harry me l’aveva proibito, allora l’aveva fatto per il mio bene, perché io incominciassi ad avere una vita sociale.

E gli stavo disubbidendo, ancora.

Stavo facendo del male a me stessa, ne ero certa.

«Qual è il tuo autore preferito?»

Mi chiese improvvisamente Louis, scostando il libro dal quale stavo studiando dal tavolo. Ci pensai un po’, ritrovandomi a concludere che non avevo un autore preferito anzi, a malapena sapevo chi fosse Shakespeare.

Così mi alzai nelle spalle e – proprio come ero solita e brava a fare – sviai la domanda.

«Il tuo?»

Gli chiesi sinceramente interessata alla sua risposta. Lui sorrise guardandomi negli occhi, trasmettendomi tutta quella sicurezza che non pensavo avrebbe mai potuto irradiarmi un estraneo.

«Preferisco la letteratura contemporanea a quella del ‘900. Come, non so… Orwell? Salinger?»

Inutile dire che non avevo la più pallida idea di chi fossero i due scrittori da lui citati. Sinceramente, però, non mi interessava. Prese a parlare delle differenze tra la letteratura contemporanea e quella appena passata, tra i diversi autori, iniziò a raccontarmi trame di diversi romanzi, a consigliarmi libri – che non avrei mai letto – e a spigarmi il perché di questo suo grande attaccamento alla lettura.

Rimasi stupita di come un ragazzo potesse essere così colto ed istruito, così intelligente e simpatico allo stesso tempo. Mi perdevo nei suoi occhi che brillavano mentre mi raccontava dei libri che per lui avevano segnato una tappa importante nel suo percorso formativo e non potevo far a meno di bearmi del calore della sua voce sulla mia pelle, quella voce cristallina che vibrava nella stanza, come se mi stesse sussurrando parole eccitanti all’orecchio.

«Perché non hai preso lettere se ti piace così tanto l’inglese?»

Gli chiesi ad un certo punto, interrompendo il suo monologo su Walter Scott, a sentir lui, il primo scrittore ad aver allestito un vero e proprio romanzo.

«Perché con lettere ci avrei potuto fare ben poco. Con legge, invece, posso aiutare la gente.»

Mi sorrise come chi la sa lunga. Mi sorrise come se volesse dire: “ed è quello che vuoi fare anche tu, cara mia!” ma, in realtà, di aiutare la gente mi interessava ben poco.

«Hai mai assistito ad un processo dal vivo?»

Gli chiesi, improvvisamente curiosa di sapere qualcosa di più riguardo quel lavoro per cui ero risultata incredibilmente portata.

Lui annuì pensieroso, distogliendo il suo sguardo da me e osservando la stanza circostante.

«Sì. Ho visto condannare un uomo per spaccio ed uno per violenza sessuale.»

Serrò leggermente la mascella e serrò i pungi continuando a guardare altrove, come se in quel momento gli stessero scorrendo davanti tutte le immagini di entrambi i processi.

«Quei bastardo…»

Continuò affondando le unghie nei palmi della mano. Io, dal canto mio, mi morsi il labbro incredibilmente imbarazzata dal suo cambio d’umore. Ma non era finita. Improvvisamente fece un sorriso amaro, di quelli che si spengono subito dopo, seguiti da una leggera scossa di testa.

«E sai qual è la cosa più triste?» Continuò, questa volta guardandomi negli occhi. Nei suoi potevo vedere rabbia, ribrezzo, repulsione.

Mi feci piccola, piccola sulla mia sedia, non convinta di voler davvero sapere davvero cosa stesse per dire, quale sentenza stesse per sputare fuori. Presi un gran respiro e mi misi in ascolto.

«L’uomo che ha spacciato è ancora dentro dopo un anno e mezzo. Quello che ha violentato una donna, invece, si è fatto sì e no un mese.»

Rimasi impassibile a quelle parole, non sapendo davvero cosa dire o cosa fare. Lui sembrava davvero irritato e provato da quella che riteneva un’ingiustizia ed, io, invece non riuscivo a capire cosa ci fosse di tanto sbagliato in tutto questo.

«Perché?»

Mi azzardai solo a chiedere, sperando che venisse nuovamente travolto dal suo solito fiume di parole e cambiasse discorso. Lui non poteva saperlo, lui non se n’era ancora accorto, ma io stavo ribollendo d’imbarazzo.

«Perché la donna che aveva violentato l’ha difeso in tribunale, lui le aveva fatto il lavaggio del cervello.»

Sgranai impercettibilmente gli occhi, avvertendo una piccola scossa di adrenalina lungo la spina dorsale. Cercai di mantenere il respiro regolare ma ero certa che le mie guance stessero andando a fuoco.

Harry mi aveva fatto il lavaggio del cervello? No, io sapevo che quello che mi aveva fatto era sbagliato, ma sapevo anche che l’aveva fatto esclusivamente per il mio bene.

L’avrei difeso in tribunale? Sempre.

Forse anche quella donna amava il suo aggressore, proprio come io amavo Harry. Forse anche quell’uomo aveva fatto tutto quello che aveva fatto solo per il bene di lei, proprio come l’aveva fatto Harry. Louis non poteva giudicare, nessuno poteva permettersi di farlo, tantomeno un giudice che non conosceva né storia né sentimenti di entrambe le parti.

«Non puoi saperlo, Louis. Non puoi sapere che storia c’è dietro.»

Lo vidi guardarmi con gli occhi sgranati, incredulo. Forse non avrei dovuto dirlo ad alta voce, forse avrei dovuto lasciare che quel pensiero rimanesse silenzioso nella mia testa.

«Spero tu stia scherzando, Chantal. Quell’uomo ha violentato una donna.»

Disse sbattendo leggermente un pugno sul tavolo, ma abbastanza forte da farmi rabbrividire. Che anche lui fosse un tipo violento? Il solo pensiero mi spaventò.

«E l’altro uomo ha contribuito alla morte di altre persone spacciando droga.»

Controbattei invece io, sporgendomi verso di lui, nonostante tra i nostri corpi ci fosse il tavolo sul quale stavamo studiando. Improvvisamente ero diventata più combattiva – nonostante il suo pugno sul tavolo che mi aveva spaventata non poco – ma la cosa non mi stupiva affatto: quando non si trattava di Harry, Niall, Liam o Zayn, spesso riuscivo anche a tirare fuori unghie ed artigli. Mi avevano insegnato loro a farlo, mi avevano insegnato a difendermi da tutti, meno che da loro stessi.

«Non è la stessa cosa.»

Mi disse lui freddo, fissandomi con quei suoi enormi occhi azzurri.

«La droga crea dipendenza. La dipendenza uccide.»

Risposi io, sempre più convinta della mia tesi e sempre più determinata a convincere anche lui che io avessi ragione.

«Ogni tipo di dipendenza è cattiva, non importa se il narcotico è l'alcol o la morfina o l'amore. Ricordalo, Chantal.»

Il mio nome, pronunciato con tale solennità sulle sue labbra fini e perfette mi fece sorridere, distraendomi inizialmente dalle parole del ragazzo.

Dipendenza dall’amore… cosa avrebbe voluto significare? E, soprattutto, cosa c’entrava con l’uomo che aveva violentato la donna? Rimasi qualche secondo a rifletterci, cercando di analizzare tutte le sfaccettature della questione e tutti i vari significati che poteva celare quella frase.

La dipendenza dall’amore. Quando si dipende dalla persona che ama, non c’è dubbio. Ma è una cosa tanto sbagliata sottomettersi all’uomo con il quale si spera di trascorrere il resto della propria vita? Sottomettersi al fidanzato con cui si sta insieme ormai da anni? Quando si decide di prestarsi completamente all’altro in un rapporto, si dipende da lui, completamente ed incondizionatamente.

Ma cosa accade se solo una delle due parti dipende e si sottomette all’altra? Cosa accade se una delle due parti prende il sopravvento sull’altra? Cosa accade se la parte più forte schiaccia e ferisce quella più debole?

«E chi l’ha detto?»

Chiesi di scherno, incrociando le braccia al petto.

«Carl Gustav Jung.» Rispose subito lui. «Uno psicanalista svizzero.» Disse con tono sarcastico di sufficienza, come a volermi prendere in giro.

Davvero stavo discutendo con un potenziale e futuro avvocato? 

Avevo perso in partenza, era inutile continuare quella discussione.

Sbuffai e tornai ai libri, riprendendo a leggere da dove avevo interrotto. Il tempo scorreva in fretta, Louis mi sorrideva mentre io cercavo di capire la differenza tra il Romanticismo e l’Illuminismo, finendo poi col fermarmi e spiegarmelo lui. Ma tanto, anche dopo la sua spiegazione, la situazione non era cambiata di una virgola visto che ero stata troppo impegnata ad osservare il suo volto perfetto per prestare attenzione all’Inglese.

«Louis, rimani a cena?»

Gli chiese mia madre, facendo irruzione nella mia stanza dopo che glielo avevo presentato e gli avevo spiegato cosa ci facesse in casa nostra.

Feci per dire che non ce n’era bisogno e che se ne sarebbe andato appena finito di studiare, ma lui mi precedette, non dandomi neanche il tempo di aprire bocca e prendere fiato.

«Molto volentieri se non è un problema.»

E da quando cucinare era un problema per mia madre? Sospirai ed alzai gli occhi al cielo non appena mamma uscì dalla stanza, dopo averci avvisato che la cena sarebbe stata pronta entro un’ora.

«Be’, qui abbiamo finito.»

Esordì Louis, non appena conclusi col ripetergli le ultime righe del libro. Avevamo studiato quasi tutto il pomeriggio ed io – personalmente – avevo la testa che mi fumava, avevo assolutamente bisogno di rilassarmi.

«Che si fa mentre aspettiamo la cena?»

Chiesi stiracchiandomi ed alzandomi dalla sedia, con la paura che il mio fondoschiena fosse diventato quadrato a furia di star lì sopra a studiare.

«Un film?»

Propose lui, già con la mano sulla maniglia della porta per uscire dalla mia stanza e precipitarsi in salone. Fai come fossi a casa tua pensai sarcasticamente ed alzai gli occhi al cielo per poi sorridere e seguirlo fuori dalla stanza, fino a sedermi a pochi metri da lui sul divano rosso del salone.

Ci piegammo entrambi verso il telecomando situato al centro del tavolino per afferrarlo e le nostre mani si scontrano, mentre i nostri sguardi si cercavano. Ritirammo immediatamente le mani, continuando a guardarci negli occhi, stupiti.

Ha le mani così… calde.

Fu la prima cosa che pensai al suo tocco.

«Chantal, sei gelata.»

Disse lui, confermando i miei sospetti. Non era lui che era eccessivamente caldo, ma io che ero eccessivamente fredda. Ormai non lo soffrivo neanche più il freddo, ero sempre stata una tipa piuttosto calorosa e da anni ormai ero abituata a girare con meno vestiti possibili e, quelli che avevo, erano cortissimi.

«Scusa.»

Risposi abbassando la testa, con fare sottomesso. Lui, per tutta risposta, rise e mi mise due dita sotto il mento, per rialzarmi il volto e costringermi a guardarlo in quei suoi due occhi blu.

«Che fai, ti scusi perché sei fredda?» Mi chiese ridendo e riuscendo a scaldarmi con un solo sguardo. «Sei strana.» continuò poi, sempre con quel bellissimo sorriso sul volto. Poi scosse la testa e mi lasciò andare il mento, alzandosi appena il maglione a righe che indossava e mostrando i suoi addominali scolpiti.

«Forza, metti le mani qui.»

Esclamò sorridendomi ed incoraggiandomi a fare come aveva detto. Lo guardai di traverso alzando un sopracciglio, non capendo cosa diamine gli stesse passando per la testa.

«Ma cosa…»

Non feci in tempo a finire la domanda che lui sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

«Avanti, fidati di me.»

Sospirai e mi avvicinai a lui, sedendomi affianco e posizionando le mani sulla sua pancia dura e tonica, per poi sentire il suo maglione intrappolarle in una morsa calda. In quella posizione ero scomodissima e non sarei di certo riuscita a vedere la televisione, così mi appoggiai appena al petto di Louis, inclinandomi leggermente verso di lui che, accorgendosi immediatamente di cosa stavo tentando i fare, mi cinse le spalle con un braccio, per farmi stare ancora più comoda.

Non che fosse proprio la posizione più confortevole che avessi mai provato, ma con le mani tra la sua pancia calda ed il suo maglione di lana e con tutto il corpo a stretto contatto con il suo… stavo tremendamente bene.

Ero in fibrillazione, il suo odore mi inondava le radici e non potevo credere che un estraneo mi stesse toccando in quel modo, con così tanta confidenza. Soprattutto non potevo credere che io glielo stessi lasciando fare.
Proprio mentre ero distratta dai miei pensieri, Louis passò delicatamente un dito sulla mia gamba scoperta e rannicchiata, tracciando una grande linea che partiva dal ginocchio e finiva al bordo dei miei shorts.
Un morsa mi attanagliò lo stomaco a quel contatto così delicato e mi accorsi si aver trattenuto il respiro per tutto il percorso del suo dito che, allo stesso tempo aveva lasciato una scia quasi infuocata dietro di lui, delimitando il suo tracciato.

Sì, stavo letteralmente andando a fuoco. D’imbarazzo?

«Questi pantaloncini saranno anche carini, ma di certo non ti tengono al caldo. Siamo a Ottobre Chantal, dovresti iniziare a coprirti di più.» Sospirò. «Anche questa mattina, avevi solo una canotta. Perché non metti felpe e jeans lunghi?»

Mi sussurrò lui all’orecchio, visto che eravamo così vicini che sentivamo anche il più silenzioso sospiro l’uno dell’altra.

Scrollai le spalle e mi affrettai a rispondergli.

«Ad Harry non piacciono.»

Risposi semplicemente e con sincerità, forse azzardando un po’ troppo. Stavo rivelando a quello sconosciuto che mi abbracciava sul divano di casa mia un lato della relazione con Harry che doveva rimanere solo tra me, lui ed i ragazzi.

Lui mi guardò stralunato, alzando un sopracciglio.

«Ah Harry non piace… che tu abbia un corpo caldo?»

Mi chiese con fare incredulo ma io, non avendo la più pallida idea di cosa rispondergli, mi alzai nelle spalle per l’ennesima volta e mi concentrai sulla televisione che era ancora spenta.

Louis sbuffò e, capendo che non gli avrei risposto, prese il telecomando ed accese la TV, sintonizzandosi sul primo film carino e spiritoso che trovammo facendo zapping tra i canali. In un momento di noia, poi, prese a giocare con i miei capelli, tirandoli appena e arricciandoli attorno ad un suo dito, per poi farli tornare alla piega iniziale. Sorridevo come una deficiente e, può sembrar strano, ma non riuscivo neanche a concentrarmi sul film.

«Ragazzi, è pronto!»

Sentimmo strillare dalla cucina dopo una quarantina di minuti, così ci ricomponemmo e spegnemmo la televisione, dirigendoci verso il tavolo da pranzo dove mia madre e Frank – che non avevo visto rientrare dal lavoro presa com’ero da Louis – erano già seduti.

«Ciao papà.»

Lo salutai poggiando le mie labbra sulle sue e poi accomodandomi a tavola ed indicando il posto a Louis.

«Papà, lui è Louis Tomlinson, uno studente di giurisprudenza.»

Frank sorrise e fece un cenno col capo a Louis che ricambiò, sfoderando un sorriso abbagliante e intimando un piacevole e formale: «Salve signore.»

Non che tutta quella cortesia ed educazione nei suoi confronti avesse anche minimamente influito sul suo giudizio su di Louis: mentre mia madre stravedeva per il ragazzo dagli occhi verde acqua – si vedeva lontano un miglio – Frank non era altresì felice di fare la conoscenza del signor Tomlinson.

Eravamo già al secondo piatto ma uno strano presentimento cominciava a farsi strada nella mia mente ed, infatti, ben presto la conversazione ad un tratto perse una piega sbagliata: cominciò a virare sul mio ragazzo.

«Come sta Harry?»

Mi chiese Frank in un momento di imbarazzante silenzio. Misi in bocca un pezzo di carne dello spezzatino e lo ingoiai, solo dopo risposi.

«Bene, come sempre.»

«Harry è il suo ragazzo.»

Ci tenne poi a precisare Frank, rivolgendosi a Louis. Oh, ma allora è un vizio di famiglia, eh?!

Louis, per fortuna, seppe gestire bene la situazione e sorrise, annuendo.

«Sì, l’ho già conosciuto.»

«E’ un ragazzo d’oro.»

Convenne mia madre con un sorriso a trentadue denti stampato sul viso. Non penso avrebbe mai amato di più un mio ragazzo.

«Siamo felici che Chantal abbia trovato lui e non un mascalzone.»

Scosse la testa emettendo uno strano verso che poteva esser meglio identificato come un risolino strozzato. Poi, continuò.

«Certo, quando viene a dormire qui fanno un po’ troppo rumore, però…»

Continuò imperterrita quella donna che non avrei più osato chiamare madre, facendomi quasi strozzare.
Era nata per mettermi in imbarazzo? Alzai gli occhi al cielo, ingoiai il boccone che avevo in bocca e me la pulii strofinandoci l’angolo del tovagliolo, poi presi per mano Louis e lo feci alzare con forza dalla sedia.

«Mi dispiace ma Louis deve andare, rimarrà a chiacchierare con noi un’altra volta, vero?»

Gli chiesi fulminandolo con lo sguardo: volevo stroncare quella conversazione sul nascere visto che ero certa che sarebbe finita con qualche domanda imbarazzante da parte di mia madre rivolta a Louis, come:«Non è graziosa Chantal? Ti piace?» E via discorrendo. Conoscevo fin troppo bene quella donna e sapevo che non si sarebbe fatta alcuno scrupolo a fare certe domande ad un ragazzo in mia presenza.

Lui, per fortuna, capì le mie intenzioni ed annuì, salutando cordialmente i miei genitori, ringraziandoli per la cena e scusandosi per il disturbo.

Bello, simpatico, intelligente e pure educato. Pensai non appena mi ritrovai davanti quel teatrino di convenevoli che si scambiavano mia madre e Louis.

Quando finalmente ebbero finito di salutarsi lo accompagnai alla porta e poi – sotto sua richiesta – anche fino al cancelletto del cortile dove era parcheggiata la sua Audi A6.

«Per caso anche tuo padre è un po’ geloso?»

Mi chiese scoppiando a ridere, non appena fummo davanti alla portiera della sua auto.

«Non è mio padre.»

Precisai immediatamente, vedendo le sue sopracciglia corrucciarsi.

«E perché l’hai chiamato papà? E perché l’hai baciato sulle labbra?»

Lo sapevo che, prima o poi, avrebbe toccato quel tasto dolente ed io sarei stata costretta a rispondergli.

«E’ il compagno di mia madre e vuole che lo chiami papà. Lo bacio sulle labbra perché sono americana e, da noi, tra persone molto intime ci si saluta così. Sai, lui è il padre di Harry.»

Mi guardò stupito, come se non credesse davvero alle mie parole. Soprattutto dopo l’ultima frase, la sua bocca si era allargata ed aveva formato una gigantesca ‘O’.

«E questo fa di voi… fratellastri?»

Mi chiese, cercando in un qualche modo di tirare le fila del discorso.

Beh, non mi sarei proprio definita la sorellastra di Harry. Non era di certo quello di due fratelli il rapporto che avevamo, anzi, e questo lo sapevano benissimo anche mia madre e Frank, suo padre. Non c’eravamo mai considerati tali, soprattutto perché nessuno dei due stava con l’altro in presenza di entrambi i genitori. Mi costringevano a chiamare Frank papà, è vero, ma non a chiamare Harry fratello, soprattutto perché la cosa avrebbe fatto incazzare parecchio entrambi.

«Mia madre e Frank non sono sposati quindi... no. Poi Harry non vede il padre quasi mai, probabilmente se non andassimo a scuola insieme non l'avrei mai conosciuto.»

Gli dissi semplicemente la verità, come stavo facendo troppo frequentemente quel pomeriggio. Ancora una volta mi stavo fidando di quel ragazzo che conoscevo appena e che, eppure, mi infondeva coraggio e mi ispirava fiducia.

«Da quanto tempo è che state insieme?»

Mi chiese curioso.

«Tre anni.»

La mia risposta lo stupì ancora di più, probabilmente avendo inquadrato Harry come il puttaniere della scuola che cambia ragazza ogni mese. Ah già, avevo dimenticato di dirgli che la nostra era una relazione aperta, dove lui poteva andare a letto con chi gli pareva ed io solo con gli altri suoi tre amichetti.

«E’ tanto.» Constatò lui stesso annuendo. «E fate rumori inconsulti nella notte.» Continuò scoppiando a ridere e riuscendo a farmi strappare un sorriso. «Lo ami?» Mi chiese poi tornando serio, spiazzandomi.
Ora, se fossimo stati circa una quindicina di anni prima e fossimo stati sul Titanic, io Rose, lui Jack, gli avrei risposto un bel “Lei è molto maleducato non dovrebbe pormela una domanda simile” ma, purtroppo, eravamo due poveri ragazzi del ventiduesimo secolo appoggiati al cofano di una macchina a chiacchierare, macchina che, tanto per la cronaca, non sarebbe di certo affondata.

«Sì.»

Lui capii dalla mia risposta secca che non avevo intenzione di continuare a parlare del mio amore per Harry, così decise di cambiare argomento, non sapendo che avrebbe toccato un tasto ancora più dolente.

«I tuoi sono separati?»

Sospirai e presi coraggio, pronta a rispondergli con più freddezza e distacco possibile.

«No, mio padre è morto quando avevo quattro anni.»

Bloccai immediatamente le immagini che avevano iniziato a scorrere nella mia mente, tutti quei pochi fotogrammi che avevo conservato della mia infanzia con mio padre. Sapevo che se mi fossi messa a riviverli uno ad uno come facevo solo a volte, allora sarei scoppiata a piangere.

«Mi dispiace.»

Mi disse lui sincero, poggiandomi una mano sulla spalla.

Incredibile come dopo il pomeriggio passato a scaldarmi, non avessi più paura del suo tocco.

Incredibile quanto Louis fosse estroverso ed espansivo, se pensavo a tutto quello che era successo fino a quel momento non potevo credere di conoscerlo solo da quella mattina.

«Anche a me.»

Gli confessai, sempre girando sull’argomento e cercando di concentrarmi su altro. Ad esempio, quei mocassini marroni che indossava Louis, non avevano smesso di andare di moda anni fa?

«Ti manca?»

Mi chiese mentre io abbassavo lo sguardo, per non incontrare i suoi occhi che sicuramente erano carichi di compassione e di pietà. Odiavo parlare di mio padre perché sapevo che avrei solo ricevuto commiserazione, nulla di più nulla di meno.

«A volte.» Risposi rimanendo sul vago. Poi, però, decisi di cambiare immediatamente argomento. «Penso sia meglio che tu vada. Dentro mi staranno dando per dispersa.»

Lui sorrise e si posizionò esattamente davanti a me – appoggiata sul suo cofano – per poi sorridermi incoraggiante.

«Sì, hai ragione. Domani mattina passo a prenderti, così sono sicuro che non arrivi in ritardo.»

Risi sotto i baffi pensando che – comunque – non sarei mai arrivata in ritardo: Harry amava pomiciare prima del suono della campanella. Però non dissi nulla, un passaggio in macchina non guastava mai.

«’Notte.»

Gli dissi, salutandolo. Lui mi sorrise ancora una volta, quel sorriso che gli illuminava il volto. Poi, appoggiò la sua fronte sulla mia, il suo odore fresco e travolgente m inondò, mandandomi su di giri. Non riuscivo a riconoscerne l’essenza, ma mi piaceva da morire. Chiuse gli occhi e per un attimo pensai mi volesse baciare e mi si attorcigliò lo stomaco, bruciava come se stesse andando a fuoco. Tutto calore sprecato, però, perché Louis, subito dopo, alzò appena la testa per poggiare le sue labbra sulla mia fronte.

«Buonanotte Chantal.»

Mi alzai dal cofano della sua macchina e rimasi lì a guardare la sua auto che se ne andava, mentre resistevo all’impulso di passare le dita lì dove avevano sostato le sue labbra. Ripercorsi il vialetto al contrario ed entrai in casa, salendo di corsa le scale e, fiondandomi in fretta e furia in camera mia, mi buttai sul letto, persa nei miei pensieri.

Subito dopo, avvertii un vibrare ovattato provenire dalla scrivania, così mi alzai ed afferrai il cellulare, notando un messaggio da parte di Harry.

In effetti, mi aveva detto che mi avrebbe chiamato, ma non l’aveva più fatto.
Una morsa mi attanagliò lo stomaco quando lessi il contenuto del messaggio.

‘Era comodo il cofano della sua macchina?’

Ci aveva visti.
 

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