Papà

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Mentre al Playguitars cominciava la serata....

Ignazio.

"Pa... pa....pa"
Era il farfugliare ancora inesperto di Vito, mio figlio, a riecheggiare nella stanzetta mentre agitava in alto le braccine nella sua culla celeste ed io gli solleticavo piano il pancino.
"Che c'è amore mio? Che c'è patatone mio? Paaapà.....chi c'è qui vicino a te? Paaapà! Dici paaapà" e bastava fare quella vocina buffa, qualche strana smorfia e qualche finta pernacchia nelle pieghe del collo, per farlo ridere fino a stancarlo e farlo addormentare.
E bastava esserci, guardarlo, respirarlo, toccarlo e sentirlo star bene per capire quale fosse il vero senso della mia vita, quello a cui non avrei mai più potuto rinunciare.
L'unico pezzo d'oro del puzzle.
"Paaapà!" aveva ripetuto poi in un gridolino stridulo e stringendo con la sua manina il mio mignolo.
"Bravo amore di papà! Bravo il mio patato! Hai detto papà!"

Papà.
Una parola sola.
L'uso di due sole lettere alternate.
Un accento finale da non dimenticare su due sillabe soltanto.
Eppure non è nemmeno esprimibile il senso che hanno, quello senza fine che racchiudono dentro.
Quello nascosto e raggomitolato in due sole insostituibili lettere come fosse un rocchetto.
La p e la a soltanto a contenere un pilastro importante e una figura indispensabile.
Un muro morbido al quale appoggiarsi e con cui confrontarsi nello scorrere degli anni, un riferimento che non dovrebbe mai mancare.
Due lettere che ad un tratto si uniscono assumendo un rilievo incomparabile.
Perché è immensa la loro accezione in questa formula assai antica.
Papà.
Quante responsabilità.
Quante paure nascoste dietro visi duri.
Quante gioie che scoppiano dentro.
Quanto peso e quanto amore senza prezzo alcuno.
Notti insonne a pensare.
Giorni intensi a muovere insieme i suoi primi passi barcollanti al parco.
Pomeriggi interi spesi a ritornare più piccolo insieme a lui.
Papà.
Punti fissi di stabilità a cui aggrapparsi per diventar grandi.
E alla fine, quando cresce quell'esserino così minuscolo ed indifeso, non è mai solo lui a farlo.
Si cresce insieme inevitabilmente in ogni progresso.
Ognuno a modo suo va più in alto di prima.
Tu impari a diventare più uomo.
Lui impara a diventare bambino.
Tu impari a sbagliare nel modo esatto dopo mille scarabocchi.
Lui copia da te i tuoi errori e poi glieli aggiusti finché puoi farlo.
Tu correggi o attenui i tuoi difetti con l'età.
Lui li scopre appena, mostrandoli nei suoi capricci, che prontamente soddisfi per debolezza di fronte a due occhioni dolci che ti somigliano.
Ed io, già pensavo sognante al futuro mentre lo riempivo di baci per aver detto papà.
Quante aspettative mi ponevo vedendolo crescere e come mi sobbalzava il cuore dopo averlo sentito pronunciare quel nome.
Me lo immaginavo già andare a scuola nervoso il primo giorno.
Pensavo già ad insegnargli a suonare il pianoforte, a cavalcare, insegnargli a tifare per la mia squadra del cuore, scoprire le sue di passioni e farlo venire ai miei concerti per dedicargli le canzoni.
Mi immaginavo già entrambi davanti ad uno specchio dei camerini per allacciarci insieme la cravatta.
Io a stringere il nodo insieme ad una manciata di doveri e lui ad imitarmi, per la voglia di somigliarmi e poi lo vedevo già correre spensierato ad infastidire qualcuno dell'orchestra.
Quanti progetti ancora da fare con i suoi consensi.
Papà.
È così semplice dirlo, scriverlo, leggerlo, ripeterlo, ma non è mai così facile esserlo nel modo giusto.
Papà.
È così deciso e marcato il suo suono eppure, quando lo diventi, quel giorno, fuori da una sala parto in ospedale ad aspettarlo, ti accorgi che ripeterlo a te stesso fa un certo effetto.
Papà.
È così facile e vecchio questo tono eppure, quando sei tu il protagonista inaspettato di quel suono, quando quel giorno chiuso dentro ad una sala d'attesa, ti dicono per la prima volta "auguri papà" è inevitabile quel brivido elettrico lungo la schiena.
È normale e d'impatto rude quella scossa che ti attraversa, rendendoti più responsabile.
Papà.
È così deciso il nome, eppure, quel giorno, quando la porta si apre con l'infermiera che tiene tuo figlio in braccio, quando lo sfiori intimorito per la prima volta, svaniscono tutte le sicurezze che hai cercato invano di racimolare.
Papà.
È così uomo questa parola, eppure, quel giorno, quando te lo mettono fra le mani per la prima volta quel coso così piccolo che sembra finto e ti fa quasi impressione, quel fagotto avvolto in una copertina verde, con due occhi vispi dischiusi a fatica, il viso rosso per lo sforzo più incredibile, quello di essere venuto al mondo, con pochi capelli e ancora sporco ma profumato di vita nuova, in quel momento non sei più uomo.
In quel momento sei prima di tutto padre alla mercé di sentimenti che non si possono celare nemmeno volendolo.
Papà.
E non ha descrizione l'attimo in cui io, con le gambe che tremavano, l'ho preso in braccio e ho guardato il mio di padre, che sorridente mi ha dato una pacca sulla spalla.
E quel tocco, per me, è valso più di mille filosofie.
Papà.
Lo diventi d'istinto quando ascolti per la prima volta il battito del suo cuoricino il giorno dell'ecografia nella pancia della sua mamma.
È naturale il passaggio fra uomo e padre.
Non si riduce tutto ad un ruolo, ma è un qualcosa di più profondo.
E piangi, ti commuovi come non avevi mai fatto prima di allora.
E quando viene alla luce lo stringi così piano perché hai paura di fargli male e gli baci la fronte attento a non pungerlo con la barba.
Lo ami all'infinito senza accorgertene neppure, come se lo avessi sempre fatto.
Come se fossi nato apposta per vivere quel momento.
È qualcosa che non controlli l'amore sovrannaturale per quel fiore che prima non conoscevi, ma però già ti sentivi legato a lui.
È un qualcosa che scorre dentro e sorge spontaneo.
Papà.
È così comune il suo frequente uso, eppure, quando quel giorno, sulla sedia piantata contro il muro del nido, senti il suo vagito e scatti in piedi come un fulmine, la consapevolezza di essere diventato davvero padre, ti sembra l'emozione più immensa.
Papà.
È così naturale diventarlo, eppure, quel giorno con soli venticinque anni portati addosso, mi si è aperto un mondo insieme a quella porta.
Papà.
Fa così spavento all'inizio, eppure, quando Veronica, in un mattino di metà marzo, mi ha mostrato il test di gravidanza insieme ad una manciata di lacrime miste a gioia e preoccupazione, ho iniziato ad avere una prospettiva diversa.
Papà.
Non l'avevo programmato così presto e magari, nemmeno in quel contesto, ma è stato il regalo mio più grande.
Papà.
Quanti moti d'orgoglio si accendono dentro come lampe di fuoco quando ti senti chiamare.
Papà.
Io lo ero diventato da undici mesi eppure mi pareva una vita.

La Storia In Una Fotografia (#Wattys2016)Where stories live. Discover now