Ventisettesimo capitolo

101 5 0
                                    

Prendo la testa tra le mani e smetto di guardarlo, le infinite parole che ho da dire sono rimaste incastrate nella mia gola. Sento che qualcuno si siede accanto a me e vorrei solo urlare di lasciarmi stare.
-Mi dispiace
Dice mio padre tra i singhiozzi e qualcosa dentro di me si muove. Inizio a piangere anch'io, a liberarmi da tutto quello che ho provato in questi due anni, a gettare dai miei occhi le sofferenze che mi hanno accompagnato da quando mia sorella è uscita da quella maledetta porta di casa e non è più tornata.
-Mi dispiace di aver buttato la colpa su di te, di non esserti stato accanto, di essermene andato. Sono stato un codardo. È stato facile prendermela con te perché non sapevo accettare la realtà. Mi dispiace di aver perso anche te. Vi ho pensato ogni giorno da quando sono uscito da quella porta, ho scritto miliardi di lettere che non ho mai avuto il coraggio di inviare. Spero che tu un giorno possa perdonarmi.

Fa una pausa per prendere aria e alzo la testa per guardarlo negli occhi. Sono rossi e disperati. È seduto con la schiena al muro e guarda il soffitto. Mia madre è ferma sulla porta che ci guarda, non l'ho sentita arrivare. Piange silenziosamente con un fazzoletto bianco nella mano.

-Quando l'ospedale mi ha chiamato e mi ha detto cosa è successo pensavo di morire di nuovo, il cuore mi si è fermato. Ho pregato Dio che stessi bene e ho giurato sulla mia vita che non ti avrei mai più lasciato andare. Non sono stato un buon padre, non sono degno di questo nome ma vorrei chiederti l'ultima possibilità.

Mi guarda e penso a quanto tempo ho aspettato il suo ritorno, a quante volte ho pregato che almeno lui potesse perdonarmi nonostante io non perdonerò mai me stesso. Qualcosa nel mio cuore si ricompone, come se un pezzo di me stesso si stesse rimettendo a posto.
-Ti perdono anch'io.
Dico in un sussurro e sento mia madre piangere più forte. Mio padre mi abbraccia e un coccio della mia vita riprende silenziosamente il suo posto. Mi alzo in piedi di scatto quando l'infermiera esce dalla porta e viene verso di noi. Di colpo la realtà mi schiaffeggia e prego che stia portando belle notizie.
-L'intervento è andato bene, i parametri si sono ristabiliti. La botta in testa è stata forte ma si riprenderà. Potete vederla tra dieci minuti.

Riprendo a respirare, di colpo tutto il mondo inizia a girare nella giusta direzione e inizio a dire grazie senza sosta. Ringrazio mia sorella e spero che lei possa sentirmi; forse questa è la mia seconda possibilità di vivere una vita degna di essere vissuta, di diventare qualcuno migliore.
-La ami?
Chiede mia madre e un sorriso affiora sul suo viso stanco.
-Non ho mai amato nessuno in questo modo.
Dico e lei mi guarda affettuosa.
-L'ho capito dal modo in cui la guardavi, facevi finta di odiarla ma i tuoi occhi non potevano nascondere ciò che sentivi.
Mio padre si avvicina a lei mentre parla e le prende piano la mano dove c'è ancora la fede. Non l'ha mai tolta, ha sempre aspettato il ritorno di mio padre e nel frattempo ha lavorato così tanto per riuscire a combattere la sua assenza, per nascondere ciò che provava. Ma l'ho sentita così tante volte piangere che ho sempre sostenuto che non riuscirebbe ad amare nessun altro, ad andare avanti.
Si guardano negli occhi e riconosco quegli sguardi, l'amore che ho sempre visto nei loro occhi, come se il tempo non fosse passato. Vado verso la stanza che mi conduce alla mia felicità mentre i miei genitori si ritrovano di nuovo dopo due anni e un sorriso stupido non riesce ad andarsene dal mio volto. Quanto ho aspettato questo momento.. Essere di nuovo una famiglia. Lo struggente desiderio di riavere il mio nido infantile che ho percepito in questi anni. Mi sento come Pascoli che, dopo aver vinto la medaglia d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam e una cospicua somma di denaro, poté riavere la sua casa e di conseguenza il nucleo familiare che era stato perduto.
Cammino verso la sua stanza e apro la porta. Il suo letto è vicino la finestra e il chiaro della luna illumina il suo volto. Mi viene in mente una poesia di Pablo Neruda: "Sonetto XVII"

Non t'amo come se fossi rosa di sale, topazio
o freccia di garofani che propagano il fuoco:
t'amo come si amano certe cose oscure,
segretamente, tra l'ombra e l'anima.
T'amo come la pianta che non fiorisce e reca
dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;
grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo
il concentrato aroma che ascese dalla terra.
T'amo senza sapere come, né quando, né da dove,
t'amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno

Mi siedo sulla poltrona e la guardo mentre dorme, è diventata la mia attività preferita, sentire il suo respiro lento e guardare ogni piccolo particolare del suo viso. Mi sento un pazzo ma non posso farne a meno. Poggio la testa accanto il suo corpo e gli occhi si chiudono soli, troppo stanchi, e ciò che è accaduto all'aeroporto la mia mente lo rivive di nuovo. Rivedo l'esplosione, il volo di decine di bagagli, la polvere e il fumo che impregnavano l'aria. Faccio un salto impercettibile per lo spavento e l'angoscia, mi alzo in piedi e inizio a camminare avanti e indietro per la stanza. Sono vivo per miracolo, è l'unica cosa che riesco a pensare.

Cassie
L'odore di disinfettante e il pianto di un bambino alleggiano nell'aria. Apro gli occhi di colpo mentre i ricordi arrivano improvvisi. La prima cosa che vedo è Joseph che dorme sulla poltrona accanto a me, ha il viso stanco e i capelli sporchi. Accarezzo piano il suo viso, non riesco a resistere a tale desiderio e mi accorgo che le mie mani funzionano, così come le mie gambe e il resto del mio corpo. Faccio un sospiro di sollievo e mi guardo intorno. I due letti accanto al mio sono vuoti, il cielo nuvoloso è sempre lo stesso; da qui posso vedere le macchine che sfrecciano veloci sulle strade, i pedoni che vanno avanti e indietro, gente che corre, che va al lavoro, che fa sport. Il mondo è andato avanti mentre per me si è fermato. Sono rimasta incastrata in quell'aeroporto e non so se riuscirò più ad uscirne. Non dimenticherò mai.
-Cassie sei sveglia finalmente!
Grida Nathalie mentre entra a velocità nella stanza. Guarda Joseph e un sorriso spunta sul suo viso.
-Vado a chiamare qualcuno
Esce alla stessa velocità con la quale è entrata. Guardo di nuovo fuori dalla finestra, dovrei essere a Parigi in questo momento, mano nella mano con J, ad ammirare la Torre Eiffel, a scattare foto o essere accoccolata sul letto dell'hotel che avevamo prenotato. Avrei dovuto mangiare i macaron o fare shopping alla Champs-Élysées, sognare davanti la Cattedrale di Notre-Dame e visitare il Museo del Louvre.
-A cosa pensi?
La voce di Joseph mi distoglie dal mio sogno. Mi giro e i nostri occhi si ritrovano; lo sguardo a volte può farsi carne, unire due persone più di un abbraccio. Paulo Coelho disse che possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell'essere umano. Niente di più vero.
-Mi hai salvata.
Dico in un sussurro e intreccio la mia mano alla sua.
-Siamo pari allora.
Mi sorride e si avvicina piano al mio viso, il cuore batte forte e penso di amare questo momento: quando le sue labbra si avvicinano piano alle mie e so in quei secondi che sta per baciarmi. Quel momento lì, quei pochi secondi, ecco il riassunto della mia felicità. Mi bacia piano e passa le dita tra i miei capelli. D'un tratto il bacio diventa selvaggio, un uragano, un terremoto, una magia. Labbracadabra.
Ci stacchiamo subito quando sentiamo la porta aprirsi, l'infermiera e mia mamma ospitante entrano nella stanza. Lo sguardo di Nathalie mi mette subito in agitazione, mi guarda con gli occhi tristi e mi chiedo subito cosa stia succedendo.

Host-brotherDove le storie prendono vita. Scoprilo ora