Severus distillò infusi tutta la mattina, provvedendo nuove scorte.
I fumi conosciuti e quieti dei suoi calderoni erano balsamo per quel momento di profonda incertezza e occupare le mani e la mente era qualcosa che in quegli istanti quasi non aveva prezzo.

Su quelle stesse indolenti note scivolò via anche il pomeriggio. 

Verso sera Madam Pomfrey lo richiamò in infermeria quando il piccolo Harry si destò in preda alla febbre.
Le condizioni del bambino, dopo la prigionia, l’operazione e quella che Snape non esitava a definire come la più strabiliante delle manifestazioni di magia spontanea mai documentata nel corso dei secoli, naturalmente non erano delle migliori e le infezioni occasionali erano soltanto un’eventualità ovvia.
Quando Severus arrivò il bambino tremava, stringendo al petto il mantello che non aveva mai lasciato in quelle ore. I suoi grandi occhi verdi erano lucidi e terrorizzati, vedevano senza vedere realmente e le piccole labbra erano come foglie battute dal vento, pronuncianti lettere che opportunamente sistemate assomigliavano al nome del giovane uomo. Senza esitare Severus gli somministrò della Pepperup ed un’altra dose di Sleeping Draught. Quella notte rimase con lui e nel buio nessuno, nemmeno egli stesso, poté osservare la cura con la quale la sua pallida, lunga mano riposava accanto a quella piccola del bimbo ancora coperta dal suo mantello. 

Il mattino seguente Madam Pomfrey somministrò diverse altre pozioni al piccolo Potter e decise di tenerlo in una sorta di prolungato sonno di guarigione. Severus concordava. Il bambino non era abituato alle continue, pressanti attenzioni mediche. Il sapore delle pozioni non contribuiva certo a rendere l’esperienza piacevole e sopra ogni cosa Severus non desiderava vedere i suoi occhi.

Occhi verdi capaci di guidarlo verso pensieri mai realizzati prima, verso azioni così caratterialmente diverse da ciò che egli stesso si riteneva capace di impedirsi.

E tuttavia, ancora adesso, a distanza di cinque giorni dalla loro fuga, mentre sedeva al capezzale del figlio di Lily Potter non trovava una giustificazione piena, completa al suo incoerente comportamento.

La neve era giunta ad Hogwarts. E nel vento dolce della sera cadeva lieve, come polline translucido. 
Le gambe elegantemente accavallate, il viso serio e pallido.
Snape si lasciò alle riflessioni che da tempo attendevano un suo esame.

Non aveva più la volontà di ignorarle. Molto tempo addietro aveva scoperto che nessun problema, dal più semplice al più inestricabile, scompariva se non vi veniva più prestata alcuna attenzione.

Sconsiderato.
Questo il suo comportamento.

L’inesplicabile necessità di rassicurare il bambino. Di rassicurare se stesso sulle condizioni del bambino. Di cercare aiuto per lui. E la sua inadulterata ira, la sua richiesta di spiegazioni, il dolore della furia con la quale aveva affrontato Albus. La Legilimens. Lily. La promessa di protezione.

Era come essere stato per ore intere qualcuno di diverso. Un uomo meno freddo, con un peso nel petto che batteva sangue e peccati. 

Scosse la testa.

E la neve continuava a cadere attorno a loro.

In quei giorni il suo risentimento per Albus crebbe e, benché egli lo tenesse nascosto persino a se stesso, la sua fredda risolutezza a prendere i pasti nei suoi quartieri o la rabbiosa frustrazione con la quale sopportava anche la più lontana delle vicinanze era di per sé un chiaro segnale. Quando Dumbledore si presentò in infermeria per assicurarsi delle condizioni del giovane Potter, Snape si ritirò a grandi passi nelle sue stanze, senza uno sguardo, accompagnato dal gonfiarsi del suo mantello attorno al suo corpo rigido. Un fruscio violento come una frustata.

Quella sera un gufo della scuola gli recapitò un messaggio.
Il Preside richiedeva la sua presenza nel suo ufficio.

Severus chiuse gli occhi, le pallide, sottili labbra tirate.



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