Capitolo 5

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Seduta al primo banco, nella chiesetta di Santa Maria, da sola, la divina Borelli riuscì finalmente a respirare a fondo, assaporando il gusto dell'aria fin dentro i più sottili capillari che le irroravano le dita delle mani e dei piedi. Sentì anche un tepore nell'addome, simile al preludio di un'eccitazione o anche all'onda scemante di un terremoto di passione. Le venne fame.

Quella mattina aveva rifiutato la colazione e non era uscita per il solito bagno di rugiada. Si ripropose di chiedere a Carmela di prepararle una tazza di caffelatte e una fetta di pane con marmellata di albicocche, non appena fosse tornata fuori da quello scarno utero di pietra in cui le si stavano rigenerando il corpo e la coscienza.

Aveva trascorso la notte in uno stato che avrebbe potuto definire a metà fra il delirio e l'estasi. La ragazza, meticolosamente attenta ad ogni suo bisogno, si era premurata di misurarle la febbre dopo averla aiutata a spogliarsi e a mettersi a letto: poco più di trentasette gradi e mezzo, una temperatura che non destava preoccupazioni, ma sufficiente a farle percepire se stessa in maniera più intensa e immediata, come sempre accade allorquando la materia di cui siamo fatti, investita da impulsi dissonanti che ne vanno a minare l'equilibrio e l'armonia, si impone con prepotenza all'attenzione.

Chiusi gli occhi, con volontà intensa di guarire, si era presto addormentata e aveva sognato. Sogni strani, fatti esclusivamente di immagini: forse pensieri del corpo, intraducibili strumenti della sua innata resilienza, che la mente, lasciata libera al pascolo nel sonno, si sforzava di restituirle nel linguaggio del mondo esterno: tantissimi rami, secchi e sottili, erano stipati in un fossato; si trattava di rami, scuri e contorti, non aveva dubbi su questo, ma a tratti le pareva che si agitassero, con lentezza incoglibile, quasi fossero piccoli serpenti; e poi... o forse prima o contemporaneamente..., la successione non aveva più importanza, giacché sentiva per certo che il tempo stava cominciando ad acquisire un senso... mentre lei, seduta immobile con lo sguardo fisso sulla tela scura, erta dietro l'insignificante altarino della cappella, stava cercando di ricordare: oltre a quella dei rami, le era rimasta l'immagine di forme geometriche colorate: pentagoni, quadrati, triangoli..., gialli, verdi viola... non erano disegni, semmai bassorilievi stampati.... sì, erano impressi su un materiale malleabile come argilla fresca, di vari colori, da una lunga matrice di metallo lucido; e lei intanto sudava e sognava di essere sveglia in un sogno; era anche affaticata ma non stanca, ce la stava mettendo tutta nel fare qualcosa che le sembrava necessario e naturale dover fare, di cui in quell'esistenza onirica era ben consapevole ma ora non più.

Infine, poco prima che si svegliasse, le si era presentato nella sua nuova forma l'incubo ricorrente. Quello sempre diverso e tuttavia riconoscibile come identico a se stesso, al di là del giudizio razionale che sempre smonta e ricompone.

Aveva sentito il corpo come paralizzato in un velo di sudore gelido: un nibbio grandissimo, mentre la fissava con occhi che parevano diamanti, stava precipitando giù da un cielo che dapprima era terso e poi d'un tratto si era fatto inquietante, con nubi nere e basse e tuoni spalmati nell'aria, sincroni ai loro lampi. Il sogno – così semplicemente lo chiamava, con spontanea sineddoche – la perseguitava, ora più ora meno, sin dall'adolescenza. E da qualche tempo aveva iniziato ad accanirsi. La cosa che cadeva giù era sempre indefinita, durante l'evento onirico. Forse soltanto il bisogno di ordine della sua mente, riusciva a darle una forma chiara al risveglio: un angelo azzurro dalle ali immense, un neonato macrocefalo con gli occhi ancora chiusi e le braccine disperate nel tentativo di lasciarsi soccorrere dalla pietà dell'aria, una rondine con un'ala spezzata, un essere divino simile a Cupido sconfitto con l'inganno...

E sin dalla prima notte del suo soggiorno a Monteserico, quella figura, oltremodo suscettibile all'interpretazione dei moti del suo corpo, si era alfine trasformata in un nibbio maestoso che dapprima si allontanava dal castello e poi, inaspettatamente, con una manovra repentina, coraggiosa ma fatale, cercava di farvi ritorno, finendo con lo schiantarsi sulle pietre inutilmente addolcite da un sorriso sottile d'erba.

Per sfuggire agli artigli di quel pensiero, la donna di rugiada focalizzò tutta l'attenzione sul quadro, al punto da obnubilare in un limbo ontologico la restante materia intorno. E si ritrovò presto lontana, raccolta in una sorta di meditazione eretica scevra da ogni contaminazione dottrinale e dunque autenticamente mistica, negli scantinati informi, odorosi di acqua e terra, del castello eretto dalla sua metacoscienza: ovvero da quella folle iperattività neuronale che degrada ogni vita a un film in cui si è contemporaneamente attori asserviti, registi volubili e spettatori spietati.

Nella rappresentazione dell'Annunciazione avvertì tutta l'umanità della donna ivi raffigurata.

Non la vide Madonna. La percepì femmina all'ennesima potenza. E per tale ragione amata, presa a modello, adorata da quasi duemila anni senza interruzioni, con picchi di venerazione irraggiungibili per qualsiasi altra divinità.

È difficile – si disse – quasi impossibile, per i più, conoscersi e darsi un senso guardandosi dall'interno: chi non azzardi oltre Narciso, avvertirà prima o poi se stesso come un'isola che si sgretola in un cerchio d'acqua il cui raggio è allo stesso tempo infinito e nullo.

Le esistenze estreme – continuò a riflettere, ormai ridotta a mera contemplatrice dei suoi stessi pensieri – quelle dannate, condannate da un intrinseco bisogno di strabordare, in cui il divenire è fuoco e l'Io, non più circoscritto negli stretti confini del corpo da cui sublima, è l'ossigeno che lo alimenta..., tali esistenze, che il buon senso degrada a deviazioni della natura umana e spesso giustifica con la follia, intrappolate in un continuo ondeggiare fra inferno e paradiso, non sono che gli specchi accecanti in cui mille altre vite più banali, ma concrete ed efficienti, mediamente travagliate e serene, mediamente tristi e felici, possono sperimentare il bagliore della propria carne, attenuato dalla riflessione su quella sacrificante dell'Idolo, dell'Eroe, della principessa che si immola all'amore impossibile: pozzi dove attingere l'ebbrezza del Tutto fra le mani, dove esserne il profumo, e sfidare lo sguardo agghiacciante e fetido del Nulla, capace di attualizzare ogni pensabile sofferenza, la putrefazione stessa delle membra e finanche la morte lenta dell'ultima stella dell'Universo.

Quelle esistenze, dunque – concluse – sono tutt'altro che dissoluti slanci di puro egoismo. Non divampano mai soltanto per se stesse. Sono scintille che la specie, di quando in quando, schiocca per prevenire una letargia che la porterebbe dritta all'estinzione per inedia. Sono molle stirate fino al limite. Aquile che osano divaricando allo spasmo le ali sull'aria rarefatta.

Lei stessa aveva dovuto compiere una scelta importante, solo pochi mesi prima.

E il frutto di quella decisione risoluta, ma anche il suo opposto, erano riassunti nel dipinto che, nello stato percettivo in cui si trovava ancora immersa, aveva assunto la vastità di un cosmo, al centro del quale Maria imperava.


la donna di rugiadaWhere stories live. Discover now