Capitolo 3

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Il presente avvertito dalla donna che da quattro giorni era trattata come se, dopo Aquilina, fosse la seconda e ultima principessa di Monteserico, sembrava davvero un universo infinito. Immenso da riuscire a diluire quasi fino all'indifferenza l'intensità di ogni angoscia, ma anche quella di ogni piacere. Un vuoto brulicante di sprazzi di spazio e tempo indecifrabili, che aveva sfumato la consapevolezza del suo essere individuo; al punto da farle avvertire indistinti anche i confini del corpo, in quella stanza resa per lei sontuosa, dove l'unico specchio che continuava a ridondare immagini non sempre in risonanza con quelle di una memoria già sbiadita nell'odore del frumento, stava diventando ormai un incubo.

Non era trascorsa neanche una settimana, dal giorno solenne del suo matrimonio con il futuro conte di Monselice Vittorio Cini. Ma si accorse subito che quella valutazione quantitativa, la quale avrebbe dovuto restituirle un significato immediato, come sempre era stato per altri eventi e in altri contesti senza che mai fosse valsa la pena di soffermarsi a pensarci su, questa volta non rappresentava la misura di alcunché. Era un semplice numero, che aveva perduto ogni possibilità di confronto con le coordinate gestibili dal corpo e dal pensiero, alla stessa maniera in cui una parola rinsecchisce a puro fonema e sfugge al linguaggio quando la si ripeta più e più volte nella mente. Un'astrazione, per dirla in altro modo, che aveva per lei lo stesso valore della distanza della luna, rivelatale dal suo uomo una sera a Venezia, mentre attraversavano abbracciati un canale lungo un arco di pietra che sembrava echeggiare sull'acqua la stessa curvatura selenica: una conoscenza che non aggiunse nulla alla meravigliosa percezione del mondo che stava sperimentando.

Anche quel giovedì sera, mentre l'ancella premurosa si affaccendava a prepararle una cena che avrebbe consumato da sola, la luna, in fase decrescente, era lì sopra i suoi occhi, riverberata dalle pietre dell'arcigna dimora ospite; vicina quanto bastava a che contribuisse al senso di realtà cui sentiva di appartenere, e tuttavia al di là di un abisso incolmabile.

Era una donna felice? si chiese mentre iniziava ad assaggiare, dapprima svogliatamente e poi sempre con più piacere, pezzetti di peperoni secchi fritti di un color porpora intenso serviti con uova strapazzate e piccolissime fette di salame unte d'olio. E poi fiori di zucchine – si era subito premurata di chiedere cosa mai fossero quelle frittelle fumanti dall'impanatura dorata e con la coda verde – e sorrise al pensiero di portare alla bocca dei fiori, lei che li amava più di ogni altra cosa e che ne aveva ricevuti tanti stringendoseli spesso al petto e qualche volta usandoli per accarezzarsi il viso. L'odore e il sapore erano nuovi, esotici e intensi, come tutto il resto in quel posto in cui l'assenza di qualsiasi confine con l'orizzonte si avvertiva fino allo sciogliersi di ogni filtro fra le sensazioni e la materia che le investiva.

Sorseggiò anche del vino rosso, talmente scuro da lasciare come una scia di tramonto sul vetro del minuto bicchiere che andava svuotandosi.

Tutto ciò le procurò un fremito di piacere, o forse di appagamento, che la invase tutta fino a risvegliarle intenzionalità nello sguardo e a ridare equilibrio ai lineamenti del suo volto.

Era dunque felice? continuò a chiedersi, stavolta dall'alto di un inatteso e non usuale picco di benessere.

Le poche persone che la circondavano da qualche giorno, e gli sparuti gruppi di uomini donne e bambini in abiti miseri e indistinguibili che si accontentavano di spiarla tenendosi a debita distanza, e i ricchi e i nobili invitati alla recente e già lontana festa di matrimonio, e la maggior parte di coloro che aveva conosciuto negli ultimi cinque sei anni, e quella stessa adolescente bionda dalla pelle di grano sbucciato la quale sembrava non desiderare altro che il piacere della donna che aveva l'onore di poter servire..., ebbene – si chiese accettando con un cenno del capo e un abbozzo di sorriso che le fosse versato dell'altro vino – come avrebbero potuto tutti costoro non pensare, indistintamente, alla divina Lyda Borelli come alla donna più felice del mondo?

Ma da quando aveva imparato a cogliere i boati di gioia e stupore negli occhi azzurri di Carmela – era questo il nome della vita qualunque totalmente dedicata per una manciata di giorni alla sua preziosa esistenza – e la fierezza arcaica di quella gente umile, abituata a cercare piccoli tesori nello scrigno che si schiude fra ogni alba e tramonto, molte delle cose che fino ad allora aveva ritenuto essere imprescindibili cominciavano ad apparirle ridicole. E rise davvero per un attimo, prima di chiedere alla ragazza di versarle ancora vino e di servirle gli stessi biscotti della sera precedente.

Stava imparando a guardarsi fra gli spazi infinitesimi dei fotogrammi che aveva immortalato per il mondo, colei che in un lasso di tempo indefinito, come lo è quello di ogni mutamento, era diventata e doveva continuare ad essere soltanto la signora Cini.

Sorrise, alla sua maniera meravigliosa e unica, e giudicò essere quanto mai appropriata la metafora dei fotogrammi balenatale quasi come giunta da una coscienza esterna che non sentiva estranea ma che tuttavia la trascendeva. Attribuì tali pensieri insoliti alla prepotenza del vino e continuò a lasciarsene incantare.

Sì, la felicità non poteva mai essere spalmata su un'intera esistenza, per quanto invidiabile questa potesse apparire dall'esterno. Le principesse delle fiabe che le avevano raccontato da bambina – e anche quelle interpretate nei suoi film – erano inevitabilmente un po' tristi; e quando infine incontravano il principe azzurro il resto della loro esistenza veniva ogni volta riassunto e liquidato in un indecifrabile e vissero felici e contenti.

E lei adesso si trovava proprio lì: sulla soglia di quel paradiso di felicità e contentezza tanto propagandato, ma dove nessun narratore aveva mai osato avventurarsi.

Un luogo proibito all'immaginazione quasi quanto l'Ade degli antichi non lo fosse per i corpi ancora in vita.

Dunque, anche la sua favola era ormai finita?

La felicità germoglia soltanto fra i fotogrammi, come l'erbetta verde fra i ciottoli di una stradina, ripeté a se stessa con la voce della mente, fra le labbra morbidamente socchiuse e gli occhi sbarrati oltre i possenti muri del maniero. Altrove è destinata a sbiadire. Assomiglia al vento, alla luce dell'alba e del tramonto, all'attimo di un nibbio: non è mai, semplicemente diviene. Questo – pensò – avrebbero dovuto raccontare ai bambini nelle fiabe.

I traguardi non esistono.

 

la donna di rugiadaWhere stories live. Discover now