Capitolo 2

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Stava ormai volgendo al termine la Grande Guerra, follia endemica di quel mostro bifronte il quale, come il genio nascosto in una lampada, emerge dallo strofinio non lineare di tante coscienze umane.

Flagello inevitabile, al di là del buon senso di ogni singolo individuo, quando il perverso feedback d'odio che ne ha nutrito il feto sia ormai giunto al punto di non ritorno.

Ma già era in agguato la Grande Influenza, morte invisibile, anch'essa folle e incontenibile, di una complessità simmetrica all'altra, se osservata attraverso uno specchio magico che, lasciando svanire l'illusorietà della dimensione, ci lasci osare un'occhiata fugace nell'urna delle essenze, dove tutto nasce e tutto muore. Di nuovo impossibile da sventare, e stavolta perché troppo sottile, troppo addentro alla natura intima della materia evoluta, perché codice di distruzione inseparabile dal quid che sancisce la stessa emergenza del vivente.

Ci sono frangenti storici in cui dall'umanità intera sembra sublimare un solo volto, che ha le sembianze di quello impresso sulla tela di Munch: lo si può vedere soltanto ad occhi chiusi, sospeso nell'atmosfera, rivolto senza sguardo verso un assordante vuoto siderale.

E il secondo decennio del Novecento fu uno di questi: dall'accanimento delle baionette, del fuoco, della fame, del gelo, su carne giovane, ancora viva e già putrida, massificata in cicatrici di terra; al macello perpetrato da un fantasma contro il quale si può al più imprecare, inventandosi un Colpevole, lo stesso che, infinite volte, il formicolio del Pianeta ha ringraziato o cercato di ingraziarsi in estrinsecazioni simboliche di ogni sorta.

Quando la vita sembra essere nient'altro che materia prima per la morte, uomini acuti quali Schopenhauer potrebbero apparirci, retrospettivamente, come autentici veggenti: la sommatoria degli eventi, effettuata su un tempo ragionevolmente lungo, a qualsiasi scala, dalla vita dell'essere biologico più semplice, alla storia dell'intera umanità, va a precipitare inevitabilmente sotto quella ideale soglia critica che ci raffiguriamo per discernere bene e male, piacere e sofferenza, gioia e amarezza. Il massimo traguardo al quale si possa ambire, sembra essere, dunque, quello della minima disfatta, quando non si sia avuto il dono supremo della non esistenza.

Eppure tale conclusione, per quanto supportata continuamente dall'evidenza, risente di un'analisi troppo semplicistica delle oscure dinamiche che fanno l'Universo.

La guerra, in tutto il mondo, aveva ucciso trentacinque milioni di giovani soldati e dieci milioni di civili.

La spagnola avrebbe saputo fare ancora meglio: non ci sono dati precisi cui fare riferimento, ma il numero delle vittime oscilla fra i venti e i cinquanta milioni.

Sia le terribili condizioni di vita conseguenti al quinquennio devastato dall'evento bellico, che il susseguirsi (soprattutto in ambito militare) di vaccinazioni di massa scellerate, avevano funto da terreno oltremodo fertile per la diffusione e l'accanimento dell'onda infettiva.

Eppure, se con un immaginario strumento in grado di misurare quegli istantanei brividi della coscienza, che al variare delle loro frequenza abbiamo imparato ad associare alle parole felicità, speranza o desiderio, si fossero accumulati dati su intere giornate di un numero significativo di individui vissuti nella seconda e terza dècade del Novecento, e calcolato in maniera opportuna un valore medio, c'è da sospettare che quest'ultimo non sarebbe troppo diverso da quello che verrebbe fuori se si ripetesse l'esperimento in qualsiasi altra epoca e in qualsiasi luogo abbastanza esteso del mondo.

Ed è appunto questo, il particolare tenuto in poco conto nei grandi sistemi filosofici che hanno preferito guardare alla Storia anziché alla sintesi delle storie, e alla vita dell'uomo nella sua totalità piuttosto che allo spumeggiare della miriade di istanti che, solo, riesce a dare forma e colore ad ogni esistenza.

Forse esiste una sola verità, incontestabile. E la sua forma è quella di una piccola nuvola, sfumata, in cui sono mischiate le cause ancora in corso sui nostri sensi di quel qualcosa là fuori che chiamiamo mondo, e gli effetti che esse stanno già riversando nell'impulsiva fame delle coscienze.

È la verità che chiamiamo presente: infinitesima e tuttavia capace di contenere, di volta in volta, l'immensità di un universo.

la donna di rugiadaWhere stories live. Discover now