Capitolo 1

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- Tratto da Limbo, terzo romanzo di Thomas Toddenberg.

Ero dolorante, sanguinante e stanco, ma non potevo permettere che il mio sogno si avverasse.

Strano a dirsi.

Qualcuno dell'Agenzia aveva tradito e permesso la mia cattura. Ero stato torturato nel corpo e nell'anima ma avevo lottato ed ero riuscito a scappare. Il sogno era giunto con scarso preavviso, anche inferiore alle altre volte, trasformandosi così da dote a maledizione o, nella migliore delle ipotesi, in qualcosa di inutile, facendo ritardare l'intervento e fallire la risoluzione.

Non potevo fermarmi prima di arrivare in città.

L'attesa del contatto con la CTU (Counter Terrorist Unit) vinceva sulla volontà di contattare mia moglie: restava poco tempo, la bomba sarebbe esplosa prima dell'alba e l'unica cosa da fare era quella di recarmi sul luogo e disinnescarla.

Ero vicino alla verità, fin troppo vicino. Mancava qualche miglio al punto della soffiata e solo una manciata di secondi. La città dormiva nel buio della notte e le sue rughe, illuminate dai lampioni, venivano lavate da una doccia dal cielo. Le gocce riflettevano il bagliore dei fanali. Un semaforo rosso mi inchiodò all'angolo tra la quinta e l'ottava di Chandler Street dove la lancetta dei secondi di un grosso orologio mi ricordò che il tempo stava per scadere.

Cinque e venti circa... sono quasi finite le lacrime, pensavo staccando lo sguardo dall'orologio ed osservando lo scorcio di cielo visibile dal parabrezza. Qualche stella cominciava ad affacciarsi dalla coperta di nuvole quando d'improvviso un lampo di luce incendiò il cielo alla mia sinistra e bruciò a cerchio le case come se fossero di cartone. Al bagliore si sovrappose un tuono che presto si mescolò col fragore degli edifici esplodenti. Un cerchio dopo l'altro, sempre più largo, più abbagliante e più assordante, avanzò nella mia direzione ad una velocità così elevata da sembrare fermo. L'ultimo edificio, quello che mi nascondeva, cambiò colore in un attimo, mutando dal nero cupo della notte al rosso vivo del fuoco e proprio quando una lingua di fuoco, mista a schegge incandescenti, stava per investirmi feci: «Aaaaaarghhh!»

Mi ritrovai seduto in auto col petto zuppo di sudore che faceva fatica a rincorrere il respiro, ed il cuore, che correva ancora più forte, ricordava il pulsare di una bomba che, all'ultimo secondo, avverte della sua imminente esplosione.

Ero andato oltre un sonno sopportabile ed il tempo mi aveva concesso dieci minuti di riposo.

È solo un sogno, Cris! È solo un brutto sogno.

Ero diventato fin troppo bravo a dire bugie, tanto da crederci anch'io. Avevo già avuto visioni premonitrici di eventi che avrebbero potuto cambiare il corso della storia e sempre sul filo del rasoio ero riuscito a sventarli.

L'11 settembre del 2001 non fu così. L'incubo profetico mi svegliò alle otto di sera e non bastò il tempo di una cena a non far cambiare la storia. Mi trovavo dall'altra parte del mondo per una di quelle missioni che ti rendono invisibile e per le quali tutti negano di conoscerti. Ciò fece ritardare lo scambio di informazioni che, stranamente, venivano distorte o assorbite da campi elettromagnetici manipolati. Il solito countdown di due ore durò anche meno quella volta e, come se non bastasse, il contatto con l'Unità mi fu tardato dal solito imbecille che giocò a fare l'eroe prima di farmi parlare con qualcuno che contasse.

Ma allora era diverso, mi trovavo a migliaia di miglia di distanza. Questa volta ero lì, non potevo fallire, non avrei avuto giustificazioni.

Nella penombra dell'auto brillava il riflesso del whisky rimasto sul fondo della bottiglia lanciata sul cruscotto durante la fuga della sera prima. L'ultimo anno del primo ventennio del secolo ci aveva regalato un mese di luglio rovente e così, disteso sul sedile, svuotai la bottiglia tutto d'un fiato digrignando i denti per sopportare il bruciore provocato dall'alcol sulle ferite interne della bocca. Ce ne erano sempre, e tante, causate questa volta dalla scazzottata con Wlando.

Il silenzio della notte veniva spezzato dalle sirene dei mezzi di emergenza, a dimostrazione che il crimine non dorme mai e nemmeno chi lo contrasta. Il bagliore dell'insegna del vicino locale illuminava l'abitacolo a intermittenza e mentre affondavo il capo nel poggiatesta fissavo il telefono poggiato sullo stereo spento.

«Meno di due ore e accadrà. Proprio qui» sussurravo a me stesso.

Non sapevo dove fosse collocato l'esplosivo ma l'unica realtà del sogno era la contea di Arlington.

L'Unità di appoggio era virtuale ed il numero del contatto veniva ricalcolato ogni sei ore e inviato agli apparecchi speciali in dotazione. Il mio dispositivo era andato distrutto nella fuga, ma anche se fosse stato integro oramai era bruciato. Ero un agente in missione e non potevo avere contatti con l'Agenzia prima che finisse il "tempo muto di sicurezza". Era questa la regola. Potevo solo attendere che questo tempo trascorresse o mettere in atto la procedura di emergenza. Così, con un cellulare - preso in prestito senza permesso - inviai un sms in codice al centralino della CTU per creare un nuovo canale di contatto.

La luce del display era ancora accesa quando il telefono cominciò a trillare.

«331» risposi rapido.

«Agente, sono Charlie. Ha saltato due tempi di muto. Il suo apparecchio è fuori uso.»

«Sono stato beccato dalla preda. Mi hanno scoperto. Ho passato due settimane all'inferno.»

«Sanno del covo?»

«No, non credo. Penso fosse più una questione personale.»

«Se l'hanno beccata allora...»

«...forse qualcuno ha tradito, lo so, ma ci penseremo dopo. Ora dimmi, hai qualcosa per me? Terrorismo, tipo!»

«Non le sembra che sia il caso di uscire fuori dal giro per un po'?»

«Ragazzo, cerca e dimmi. Mi avete chiamato per questo, lo so. Ho visto l'emergenza. L'ho sognata, quindi sbrigati!»

«Sì, ha ragione signore. La triangolazione posiziona l'attività sospetta al sottolivello undici del Pentagono. Ho rintracciato delle conversazioni criptate. Parlavano di un countdown.»

«Sei riuscito a rintracciare una conversazione?»

«Sì.»

«Parlano di questa cosa su una linea normale?»

«Sì, lo so, è strano.»

«È come se volessero essere rintracciati. Anche questa sarà una delle cose a cui penseremo dopo. Al sottolivello undici del Pentagono hai detto?» chiesi, avviando il motore. «Ma è dove abbiamo il centro di raccolta e registrazione dati!»

«Sembra proprio di sì. Puntano a copiare o distruggere le informazioni per indebolirci probabilmente» continuò Charlie, «ma lei già lo sapeva, a quanto pare.»

Charlie Sawyer era solo il cervello informatico dell'Unità, eppure su di me sapeva esattamente quanto le alte sfere. Il capo della CTU, Joseph Brill, era al corrente delle mie capacità e puntualmente cercava di carpirne il segreto, convinto che tutte le persone avessero le stesse potenzialità, però con un particolare meccanismo di accensione. In realtà, la sua preoccupazione maggiore era quella di tenersi sotto il culo la poltrona di comando. Posizione che avevo già rifiutato più volte.

«Troppo riposante» rispondevo ai miei superiori, con la serietà necessaria. Dovevo pur giustificare il rifiuto in qualche modo.

Una pausa precorse la mia risposta e prima di riattaccare esternai con tono deciso: «Non del tutto. Ma adesso devo andare!»

Non c'era stata una richiesta diretta di aiuto ma già sapevo di essere l'unica persona capace di gestire quel pericolo fin troppo serio. Pochi sapevano delle mie doti da profiler crime e il Pentagono, in estremo riserbo, stava studiando la mia follia col fine di amplificarla e tentarne lo sviluppo anche in altri matti della CTU.

(CONTINUA)






Autore cercasiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora