Mi addormentai subito, strano a dirsi ma non ebbi problemi a prendere sonno. Né dovetti subire la visione della vasca insanguinata di Bette nei miei incubi.

La mattina dopo andai al lavoro come al solito. In assenza di Manuel e Bette ero sempre parecchio immusonita, quindi nessuno notò la differenza. Passai lì la mattinata e consumai il mio pasto portato da casa appollaiata sul nostro divano nel magazzino. Poi finsi di sentirmi terribilmente male, minacciai conati di vomito davanti a un paio di clienti e alla fine fu Sophie a chiedermi se non volessi per caso andare a casa.

Mi tolsi la divisa e andai in ospedale, ma prima passai dal mio appartamento a prendere alcune cose.

Con la luce del giorno l'Hôpital Lariboisière non era molto più piacevole rispetto alle ore notturne. Oh, certo, il giardino all'italiana e tutta la pomposa eleganza architettonica avrebbero avuto un enorme fascino su di me se non fossi stata in visita a un paziente, ma l'interno era fastidiosamente simil Grey's Anatomy. Terribile.

Mi feci spiegare come raggiungere la stanza di Bette dal tizio al banco dell'accettazione. Ero quasi tentata di tornare indietro e scappare, ma per qualche ragione decisi di non farlo. Strinsi il pacchetto al seno e marciai fino alla mia meta.

La porta della camera da letto era aperta. Feci capolino all'interno e vidi che Bette era sveglia, seduta sul letto inclinato. Era coperta dal lenzuolo fino al mento, il tubicino della flebo che spariva al di sotto delle coltri. Nel letto di fronte c'era qualcuno, ma la tenda divisoria era tirata.

Bussai delicatamente, appoggiata allo stipite.

Bette si voltò di scatto verso di me. «Oh, no».

«Ciao anche a te».

Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Léo...».

Sollevai una mano per interromperla. «No, Bette, non serve che tu mi dica niente. Immagino che non abbiano fatto altro che chiederti il perché da quando sei qui, perciò se non vuoi dirlo a me lo capisco».

Lei abbassò la testa e non rispose.

Mi sentivo letteralmente in prestito. Me ne stavo lì sulla porta, senza azzardarmi ad entrare, ma neanche ad uscire, senza sapere dove mettermi. Bette non riusciva nemmeno a guardarmi.

Era come la storia dell'elefante nella stanza: tutti sanno che c'è, ma nessuno osa parlarne e tutti fanno finta che non esista. Ciò che era accaduto a Bette era talmente grave che entrambe avremmo voluto fingere di non saperlo.

Mi chiesi se non fosse per caso colpa mia. Non avevo mai detto a Bette che sapevo dei suoi psicofarmaci. Chissà, forse se gliene avessi parlato avrei saputo il vero motivo per cui li prendeva e magari anche come aiutarla.

«Quello che è successo», disse Bette all'improvviso, «non è stata colpa di Henri. Certo, lui è stato davvero uno stronzo, ma la reazione che ho avuto è stata un mio problema».

Finalmente mi decisi ad entrare. Posai le cose che avevo portato sul tavolino e presi una sedia. «So della venlafaxina».

«Come? E da quando?».

Mi strinsi nelle spalle. «Da un po'. Bette, io capisco che tu abbia voluto tenere per te questa cosa, lo capisco davvero. Però...».

Scese il silenzio. Però cosa? Però non avresti dovuto cercare di squarciarti le vene, Bette. Però proprio non avresti dovuto voler morire, Bette. Però non avresti dovuto permettere che ti trovassi io, Bette. Però, Bette.

«Dopo pranzo, ieri, ho voluto fare una sorpresa ad Henri nella ditta dove lavora», spiegò con un filo di voce. «Col senno di poi avrei dovuto pensarci che forse lo stavo disturbando. Comunque arrivata lì ho trovato una donna con un ragazzino».

The Art of HappinessWhere stories live. Discover now