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Una delle cose che mi piaceva di più di quell'appartamento orribile erano loro due. Jacques e Manuel. Erano stupendi da guardare, non perché fossero gay ed io avessi questa specie di feticcio da fangirl, ma perché erano così perdutamente uniti e dolcemente zerbini l'uno per l'altro che non studiarli sarebbe stato un peccato innominabile.
Si erano trovati. Conoscete il detto "Dio li fa e poi li accoppia"? Beh, Dio doveva aver dedicato particolare attenzione nel farli, i miei coinquilini, e chissà, magari aveva voluto mettere anche me in quella casa perché un giorno, quando morirò, potrò andare da lui e dirgli: "Hey, Dio, lo sai che hai fatto un ottimo lavoro con quei due?". "Grazie, Léo", mi risponderà Dio, "modestia a parte sono un gran fenomeno".
A guardare Manuel lo si sarebbe detto un fattone e, beh, lo era. Incarnava proprio lo stereotipo del fumato, solo che portava quei vestiti e quei dread così bene che mai nessuno lo avrebbe definito un montato. Gli veniva naturale, insomma. Non era bello nel senso canonico del termine, ma era un tipo.
Jacques era decisamente belloccio, anche se era sempre talmente annoiato e stravaccato su quel divano che l'aspetto passava in secondo piano. Continuava a dire ai suoi genitori che stava studiando, ma sapevamo tutti che non era vero e Manuel sembrava trovarsi bene nel tornare a casa e sapere che il suo compagno era sempre lì, a qualsiasi ora, in attesa di lui.
E quando facevano qualcosa, anche cose diverse, lo facevano comunque insieme. Magari Jacques giocava alla play e Manuel leggeva un libro – leggeva pesantissimi libri alternativi, di quelli che anche l'autore non riesce a capire, secondo me – ma erano insieme, sempre. Si toccavano con i piedi, o magari erano solo seduti vicini. In ogni caso, ovunque fossero, c'era una specie di forza fisica che li costringeva ad avvicinarsi un po'. E non litigavano mai, con Manuel non si poteva litigare, e in comune avevano tutto e niente. E l'erba, soprattutto quella.
Mi sentivo sempre un po' meglio, passando una serata con loro, un po' come quando stavo tanto a lungo con Marie. Da questo punto di vista credo che, non fosse stato per i miei amici, sarei molto più brutta e stronza di così. Mi migliorava stare con loro, mi migliorano ancora. Rendevano sopportabile il fatto che ero dottoressa con lode e prendevo ordini da una troietta depressa in un posto anonimo e noioso per otto ore tutti i giorni. Per sempre. Era quello a spaventarmi un po', nei momenti peggiori, il fatto di non sapere come avrei fatto a riscattarmi.
Mi passai una mano sul viso, rischiando di infilarmi il pennello nell'occhio. «Jacques, devi stare fermo».
«No, senti, io questa cosa di farti da modello proprio non la digerisco, mi annoio da morire e ho freddo».
Spostai la testa oltre la tela, aggrottando la fronte. «Sei tu che mi hai detto di voler stare a torso nudo, scemo».
«Lo ha fatto per me», ridacchiò Manuel dal divano.
Entrambi ignorammo il suo slancio di romanticismo. «Senti, noioso, se non ti va alza le chiappe e fammi dipingere la sedia da cucina sotto il tuo culo», sbottai.
Jacques aveva un ego un po' smisurato, così si affrettò a dire di no, ma sempre con quell'aria da "ti sto facendo un favore, donna". Ridacchiai e continuai a tracciare segni sulla tela.
Era diventato più facile dipingere. Dopo quella notte, dopo la prima sera in cui Manuel aveva sparato su di me tutta la sua filosofia da drogato, dopo che avevo scacciato la paura buttandomi a capofitto sull'unico quadro che non avrei mai e poi mai ceduto ad altri, era diventato più facile. Non mi mancava l'ispirazione, non mi mancava la voglia di prendere il cavalletto, prendere il carboncino, prendere fiato e iniziare. E finalmente non mi mancava l'idea di dire "questa è la mia arte, questa sono io e se alla gente non piace fanculo".
Stavano dando American Horror Story in televisione. Lo avevo visto tutto un sacco di volte e non vedevo l'ora che facessero uscire la nuova stagione. Guardai lo schermo: c'era suor Mary Eunice che iniziava a dare segni di possessione e Lana – Lana Banana – che ormai era in manicomio, Manuel era tutto agitato sul divano mentre la guardava e anche se faceva finta di niente io lo sapevo che quella notte avrebbe piagnucolato sul petto di Jacques per la paura del pazzo maniaco che c'era in tv.
«Hey, Léo».
«Dimmi».
Jacques sorrise. Forse avrebbe voluto essere un ghigno di scherno, in realtà l'espressione era quella di uno stitico sul cesso. «Vengono i miei, la settimana prossima».
«Ah», risposi. «Ok, uhm, bene». Mi chiesi perché lo stesse dicendo a me. A me e non al suo compagno.
«Già. Non sanno che sono gay».
Guardai Manuel con la coda dell'occhio. Era così concentrato sulla serie televisiva e così fatto che probabilmente non aveva nemmeno sentito. «Capisco».
«Davvero?».
Annuii. Certo che capivo, bastava vederlo in faccia per rendersene conto. Era ovvio che Jacques non voleva proprio dirlo, ai suoi, di essere omosessuale. Che poi forse non lo era, un paio di volte lo avevo beccato a guardarsi un porno e non era mai un porno gay. Forse gli piacevano entrambi i sessi. Il punto, però, è che stava con un uomo in quel momento.
«Diremo che sono la tua ragazza», scherzai con un sorriso. «A me non darà fastidio, ma devi chiedere a Manuel».
Lui drizzò le orecchie sotto i dread. «Mi hai chiamato, Sandwich?».
«No, parlavamo del turno di oggi», mentii.
Avrei chiesto a Jacques di seguirmi in bagno per sgridarlo, per dirgli che Manuel meritava di essere considerato per ciò che era, ovvero un fidanzato premuroso e gentile. Gli avrei tirato le orecchie e avrei inveito dicendo che, per una volta, aveva un rapporto serio con una persona che lo amava come l'aria nei polmoni e che doveva solo essere felice. Gli avrei detto che doveva esserne fiero, che doveva essere fiero di sé e di ciò che era e che non importava cosa avrebbero pensato i suoi. Avrei fatto tutto questo, se non avessi visto la faccia tirata di Jacques. La sua espressione triste, indifesa. Come una bambola abbandonata sulla sedia, come se all'improvviso fosse stato svuotato di ciò che aveva dentro.
«Jacques».
Sollevò lo sguardo, come se lo avessi richiamato dall'aldilà.
«Sono qui, sai?», mormorai. «Non c'ero l'ultima volta, non come avresti avuto bisogno, ma adesso sono qui».
Fu una cosa strana. C'era Manuel a un metro da noi, c'era suor Jude che fustigava Kit Walker in tv e la porta d'ingresso era spalancata, così come quella di Marie, perciò potevo sentirli bisticciare sul fatto che mancasse di nuovo la farina di kamut e come faccio senza kamut, Jeannot, me lo dici?, eppure per un solo momento fu come se ci fossimo solamente noi. Solo noi due, in sintonia e alleati contro il mondo, in una bolla di sapone.
Bolla che scoppiò quando Manuel balzò in piedi e urlò: «No, ma allora è stato lui! Oh, Cristo, no, ti prego!».
E lo sguardo che Jacques gli lanciò, sobbalzando per lo spavento di sentirlo all'improvviso urlare per qualcosa di così stupido. Voi non sapete cosa fosse quello sguardo, così pieno d'amore, bruciante, violento, carico di aspettativa e fiducia, di affetto e reciproca dipendenza.
Lo stesso che Marie e Jeannot si rivolgevano ogni giorno.
Era lo sguardo che avevo io guardando George.
Con rabbia tracciai una pennellata obliqua sulla tela, una lunga e larga striscia verde pallido che coprì il disegno a carboncino solo parzialmente colorato. Mi sarei impiccata con i miei collant solo per smetterla di pensare a lui.
Manuel si alzò per andare in bagno - "Dopo questo episodio devo proprio pisciare, vi rendete conto del colpo di scena?" - e Jacques mi fissò per un lungo momento. Entrambi ci fissammo, in attesa che qualcuno aprisse la bocca per primo.
«Fingiti la mia ragazza», mormorò lui alla fine. «Ti prego».
«Io stavo scherzando».
«Ma io no! Mio padre mi ucciderebbe se lo scoprisse. Mi taglierebbe i fondi e allora-».
Lo interruppi. «E allora dovresti trovarti un lavoro? Non sia mai».
«Sono serio». Non me la sentii di dissentire, perché lo capivo dal suo tono che era terrorizzato. «Aiutami, per favore».
Sorrisi e annuii. «Lo farò. Ma la cena la paghi tu».

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