XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 4

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Maione attende paziente un prosieguo, il volto che sembra scolpito nel granito, tanto è teso.

«Adesso, o danzo al suono del loro piffero o posso dire addio alla faccia e alla carriera. Che io neghi o meno il mio coinvolgimento nel rilascio di Iannello, se Garzo solleverà la cornetta e telefonerà al questore, sono certo che non vi sarà alcun nullaosta firmato a nome suo. E questo farà di me, a seconda di ciò che dirò, o un bugiardo che si avvale di raggiri, o un bugiardo privo di nerbo che scansa le proprie responsabilità,» enuncia stanco, con lo sguardo fisso sul marciapiedi smorto. «Dunque, l'unico modo che ho per evitarmi un'infamia è stare al loro gioco, assumermi l'onere delle mie presunte azioni millantando chissà quali agganci in alto e impedire che Garzo compia quella telefonata.»

«Commissario, con tutto il rispetto, ma non sto...»

«Ho pestato i piedi alla gente sbagliata, brigadiere,» lo interrompe lui, sollevando infine gli occhi e sentendoli stanchi, quasi quanto quelli di Maione. «Ti prego, evita di farlo anche tu solo per venirmi appresso.»

Maione ammutolisce, la bocca una linea compressa e appena visibile, ma gli occhi mandano lampi.

«Cosa intendete fare, adesso?» chiede dopo qualche secondo, con tono pacato e in contrasto col ribollire di eventi attorno a loro.

Ricciardi si sfrega le palpebre, dietro le quali batte un dolore sordo che è stanchezza ed esasperazione. In uno slancio che potrebbe essere il primo sprazzo di una follia sopita, pensa che Falco se l'è giocata assai bene, quella carta.

Adesso, o arresta il vero sospetto e fa un favore al popolo, a Falco stesso e al fu Gigliolo; oppure, rimane con un pugno di mosche per poi vedersi sfilare la sedia di commissario da sotto le terga per insubordinazione, con l'unico malus per l'OVRA d'aver liberato un uomo che sanno innocente e averne lasciato impunito uno che, di fatto, nessuno sta cercando.

Comunque vada, la situazione andrà a loro vantaggio. E, comunque vada, lui continuerà a trovarsi tra l'incudine e il martello.

«Andiamo in Questura,» scuote infine la testa, incamminandosi senza aspettar replica, «prima che a Garzo giunga la notizia. Se la apprende per voce mia, forse riuscirò ad arginare i danni.»

 «Inammissibile!»

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«Inammissibile!»

Quella parola, pronunciata a piena voce e scandita in ogni sua singola sillaba, tuona nell'ufficio del vicequestore, facendolo sembrare molto più angusto di quanto non sia.

«Voi mettete a repentaglio il buon nome della Regia Polizia e, per giunta, vi fate beffe della mia autorità!»

Ricciardi si morde la lingua per non replicare. Ha la gola secca per aver parlato a lungo, mentre esponeva a Garzo, infiocchettandoli come poteva, gli ultimi avvenimenti e progressi sul caso; anzi, i casi. Sforzo inutile, a quanto vede.

Rimane in piedi al centro della stanza, le mani ancorate dietro la schiena, il busto rigido e impettito che potrebbe essere scambiato per un attenti, non fosse per il capo lievemente inclinato, così da scrutare Garzo di sguincio; e da dare un po' di sollievo al collo tumefatto, che nell'ultimo paio d'ore l'ha tormentato con un dolore sordo e pulsante a ogni movimento.

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