RISORGERE PER TRIONFARE V

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Milano, 1825.

Il cambiamento.

Ho sempre sentito mio padre parlare di questo "cambiamento" senza mai comprendere a cosa si riferisse. A qualche anno addietro risaliva la sua prima menzione di questo fatto che ci avrebbe, a suo dire, resi liberi.

Stava leggendo il giornale in salotto, quando un nostro servitore entrò con aria circospetta e lo avvicinò discretamente. Io stavo suonando qualche scala al pianoforte per esercitarmi e mia madre era intenta nel ricamo. Qualche parola sussurrata all'orecchio bastò a illuminare il volto del mio progenitore, il quale lo ricompensò tramite del denaro in più rispetto al compenso per i suoi servigi in casa nostra. Qualsiasi cosa il nostro maggiordomo gli avesse detto, non era presente sul giornale ufficiale e qualsiasi cosa significasse per mio padre, era evidente che si trattava di buone nuove che lo misero di buonumore per tutto il resto della serata.

E quando un giorno io gli chiesi: «Liberi da che cosa esattamente?» mio padre si chiuse in un ostinato mutismo, asserendo che avrei capito più avanti. Eppure, nemmeno i miei studi al Ginnasio mi aiutarono a comprendere le cose che a mio padre sembravano chiare come il sole.

Non aveva senso per me.

Eravamo la capitale del Regno Lombardo-Veneto, eravamo indipendenti sotto l'ala degli Asburgo, una città pulsante e florida. Cos'altro potevamo volere di più?

Tutte queste vicende le condividevo con i miei amici del Ginnasio, i quali ascoltavano con aria grave i miei racconti.

«Anche ieri sera, il nostro maggiordomo ha sussurrato qualcosa all'orecchio di mio padre e lui pareva essere ringiovanito di vent'anni. Ancora non riesco a comprendere cosa può avergli detto di così straordinario.»

«Cosa ti turba, Ernesto? Io al posto tuo sarei felice se mio padre non mi coinvolgesse in tutto quello che succede, mi godrei la mia vita spensierata e basta.»

«Nicola ha ragione, fossi in te non mi farei tutti questi scrupoli. In fondo, sono affari suoi.»

Solo Emanuele, il più giovane della nostra brigata, se ne stava in silenzio, pur non perdendosi una parola dei nostri dialoghi. Ero convinto non avesse nulla da dire a riguardo, ma dovetti ricredermi.

Durante una lezione particolarmente noiosa, mi arrivò un bigliettino. Lo aprii incuriosito per leggerlo.

ACCE LETADDA TIRRO ZGORO OR DLONAMDA

Sgranai gli occhi. Forse era la luce che penetrava dalla finestra a giocarmi un brutto tiro, oppure era la stanchezza per le ore di lezione.

«Archilli! Fammi vedere cosa tieni in mano!»

Ecco fatto. E nemmeno ero riuscito a capire cosa ci fosse scritto! Avanzai tra le fila degli studenti che ora mi fissavano, incuriositi dal diversivo. Cercai di darmi un contegno e di sembrare il più disinvolto possibile, come se il professore mi avesse soltanto chiamato per svolgere un esercizio alla lavagna.

«Da' qua!»

Porsi il biglietto che mi fu strappato dalle mani in malo modo. Mi aspettavo una punizione esemplare, l'espulsione dalla scuola, un progetto da consegnare in breve tempo che mi avrebbe tenuto sui libri tutto il resto della settimana, del materiale aggiuntivo da portare all'interrogazione, invece, sorprendentemente, l'espressione del docente cambiò. Da arcigna a sorpresa e infine, sorniona.

«Puoi andare, Archilli e abbi più cura delle tue cose.» Sussurrò in modo che nessun altro all'infuori di me lo potesse udire.

Mi rimise tra le mani il biglietto e mi congedò.

«Riprendiamo la lezione!»

Uscii dall'aula ancora incredulo per averla passata liscia, ma deciso a scoprire chi mi avesse passato quel biglietto. Ad attendermi, c'era Maria Caterina, la mia fidanzata.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 28 ⏰

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