XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 3

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Il suo volto si contorce in modo repentino, passando dallo sconcerto al ribrezzo, sino a consolidarsi in una patina di gelo.

«Ora capisco perché tenevano tanto alla riservatezza,» commenta soltanto, la bocca rigida che si muove appena. «E capisco anche perché Caterina si sia distaccata da lui.»

«No. Se ne è distaccata perché hanno perso un figlio.»

Pronuncia quella frase senza alcuna inflessione, ma vede Livia farsi di pietra, gli angoli degli occhi tesi in una sofferenza repentina, impossibile da celare. Sfugge i suoi occhi per la prima volta, senza proferir parola; Ricciardi non sa se per la notizia in sé, di cui Caterina non le ha probabilmente mai fatto parola, o per il riemergere di ricordi che ancora la tormentano.

Perdere un figlio lascia un marchio infausto nell'anima, lo vede ogni giorno anche in Maione. Abbassa lo sguardo, colpevole, e si pente d'aver menzionato il fatto.

«Il punto non è questo.» Ricciardi tira il fiato, poggiando di nuovo la schiena sulla stoffa arabescata. «L'OVRA non ha prove dei traffici di Gigliolo e io sospetto che volessero solo scongiurare un'indagine scomoda, a prescindere dalla veridicità dello scandalo o meno. Impedendomi di confermarlo, sì, ma anche eventualmente di negarlo. Così da evitare ogni possibile clamore, perché è più semplice sbattere la gente in galera e avere un facile colpevole che smuovere le acque quando non fa loro comodo.» Serra i pugni, in un vano tentativo di placare i toni. «Io, però, credo che sotto ci sia qualcos'altro. Non so cosa, di preciso, non ancora; ma ho parlato or ora con Caterina, che nega ogni cosa fortemente, e...»

«Come negherebbe qualunque vedova col marito accusato di pedofilia, Luigi.»

Ricciardi si interrompe sotto lo sguardo fosco di Livia.

«Non lo sto difendendo,» puntualizza di scatto, rendendosi conto di come deve apparire quella sua sorta di arringa per Gigliolo, «sto solo dicendo che ci sono troppi fatti che non mi tornano e che, se mi impediscono di indagare su di lui, non posso nemmeno far giustizia per quella bambina che hanno ucciso nelle catacombe.»

«Proprio sotto casa tua,» dice Livia, priva d'inflessione, ma con sguardo torbido.

Ricciardi s'irrigidisce, una vena che prende a pulsargli ritmica sotto al collo.

«Vuoi accusarmi anche tu di infanticidio, Livia?» sbotta a voce troppo alta, frenando l'impulso di alzarsi. «Perché è quello che faranno se mi ostino a volerci veder chiaro; e a quel punto preferirei che mi ammazzassero, o finirei per farlo con le mie stesse mani prima che mi rinchiudano in un manicomio.»

La mano di Livia si posa sul suo polso, a placarlo; e sul suo volto sfreccia per un istante un'ombra di paura, nell'udire quelle parole.

«Non intendevo questo,» dice con fermezza. «Intendevo che mi sembra un qualcosa di fin troppo ben architettato per mettere in cattiva luce te.»

«Li dipingi come più intelligenti di quanto non siano,» sorride freddo lui, ancora fremente, ma senza ritrarsi dal suo tocco. «Sono solo sciacalli che sfruttano la scia di criminali come loro per non sporcarsi le mani. Con un'accusa di...» gli incespica la lingua e si affretta a riformulare: «Con quello di cui accusano me e Bruno, aggiungervi pure una nefandezza del genere sarebbe fin troppo facile. Ma se io lascio perdere il caso, un assassino rimarrebbe a piede libero, impunito, e un innocente finirebbe in galera per i suoi crimini. Io questo non posso accettarlo, anche se rischio di farmi arrestare o internare o vedermi esporre dinanzi a tutti e rovinarmi la vita.»

Livia tace per lunghi secondi. Ricciardi è lieto di non scorgere alcuna esternazione di dubbio nei suoi lineamenti. Lo confessa solo ora a se stesso, ma l'aveva temuto: aveva temuto che Falco l'avesse già sobillata, trovando terreno fertile nel suo non essere corrisposta per quel marchio d'indecenza che lui si porta addosso. Si vergogna d'averlo pensato, adesso: Livia non è il genere di persona che concede o nega fiducia come una bandoliera al soffio delle parole altrui.

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