Capitolo Sette

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Ridacchiò con determinazione; prima o poi, sarebbe caduta ai suoi piedi. 

Eris si accese una sigaretta, intenzionata a ignorare la risposta del suo socio in affari. I due bodyguard, imponenti e minacciosi, sorvegliavano l'entrata della camera privata con il loro solito atteggiamento risoluto. Vestiti in abiti scuri e dotati di auricolari discreti, si ergevano come sentinelle silenziose, pronti a intervenire a ogni eventualità. 

«Ho fatto alcune ricerche e ho una proposta interessante su come investire i nostri fondi di  denaro sporco. Ho pensato di mettere il nostro denaro in un progetto di agricoltura urbana» spiegò lei, mentre si sistemava le pieghe del vestito. Poscia, ordinò al cameriere lì presente di portarle un Romanée-Conti e si accomodò vicino al socio d'impresa.

«Agricoltura urbana? Non è esattamente il tipo di investimento di cui ci si aspetta in questo settore» si accigliò il partner. Corrucciò le sopracciglia e, con un cenno della mano, mandò via tutti i presenti.

«Esatto. Ed è proprio per questo che può essere incredibilmente redditizio. L'agricoltura urbana è in crescita e sta diventando sempre più popolare nelle grandi città. Il nostro obiettivo sarà creare un'azienda che coltivi prodotti freschi e biologici in città, fornendo un'alternativa sostenibile e di alta qualità ai prodotti agricoli tradizionali. L'ultima volta il piano si è rivelato un disastro e abbiamo attirato attenzioni indesiderate. Non possiamo permetterci che qualcuno sospetti la vera natura delle nostre operazioni!» spiegò Eris, con voce ferma e chiara. Accavallò le gambe e, sicura di sé, continuò a fissare il suo interlocutore.

Venegas iniziò a battere le mani, sprezzante; poi scoppiò in una risata divertita.

Eris gli lanciò un'occhiata interrogativa e si portò una mano tra i capelli; iniziò a giocare con una delle ciocche dipinte di blu e puntò il suo sguardo tagliente su di lui.

«Questa volta non andrò in giro a ripulire i tuoi casini. Il Signor Veach è rimasto molto deluso dal tuo ultimo investimento, quindi ora faremo a modo mio», lo minacciò lei, senza molti giri di parole. Prima di versarsi ancora un po' di vino rosso nel calice, gli porse una cartella piena di documenti da sottoscrivere. 

Il consocio ingoiò a vuoto e serrò la mandibola, consapevole di non avere altra scelta. Quindi afferrò il raccoglitore e capitolò senza fare storie; chinò la testa verso il basso e si accese un sigaro. Iniziò a picchiettare con il pollice sul ginocchio e, nonostante l'interno disappunto, si apprestò a firmare i fogli. Poi si ficcò gli arti superiori nelle tasche del jeans nero che indossava, cercando di mantenere un'apparenza di compostezza. Odiava trovarsi dalla parte del perdente. 

«Mio fratello si occuperà di trovare un terreno adeguato al programma. Prepara il denaro da investire e dividilo in piccole sequenze monetarie. Io, come sempre, penserò al resto», concluse l'altra, prima di alzarsi con un movimento fluido dalla sua postazione.

Si voltò e si avviò con passo felino verso l'uscita principale. A un passo dal battente, si rivolse di nuovo verso il suo ospite: con un gesto imperioso, mosse il calice verso l'alto per libare al successo del nuovo progetto. Poi, con le iridi color miele fulgide di sicurezza, lasciò la stanza con la sua solita espressione da vincitrice stampata sulla faccia.
Ma non durò a lungo: con un'aria agitata, iniziò a farsi largo tra l'immensa folla presente al locale. Risalì il corridoio fino al suo modesto ufficio personale, situato al primo piano.

Appena varcò la soglia, si sentì soffocare.

L'ambiente era semplice, con mobili essenziali e un bagno di modeste dimensioni attiguo alla scrivania.

Travolta da una sensazione di nausea, corse a sedersi sul gabinetto in porcellana.
Il cuore martellava furioso nel petto, le mani tremanti cercavano di aggrapparsi a qualcosa di solido per mantenere un minimo di equilibrio.
Lo spazio intorno a lei, continuava a trasformarsi in un bozzolo stretto e caotico; benché i termosifoni fossero accesi, iniziò a contorcersi dal freddo.

Con uno sforzo, si mise in piedi e si chinò sopra il lavandino, dove espulse con violenza tutto ciò che si era accumulato nel suo stomaco.
Ancora ansimante, cercò appoggio al lavello.

Si guardò allo specchio, notando con ribrezzo il suo riflesso distorto.

Con un gesto impetuoso, tirò un pugno alla superficie riflettente, rompendola in mille pezzi. Si accorse delle ferite alle nocche solo quando il sangue cominciò a sgorgare copioso da esse, macchiando il bianco del lavandino con le sue gocce rosse e infuocate d'ira.

Esalò un respiro sommesso e agguantò la piccola pezza morbida posta ai lati dell'armadietto sovrastante. Dopo averla inumidita con dell'acqua tiepida, iniziò a strofinarsi freneticamente il collo. Con la fronte umida e le guance accaldate, continuava a ripulirsi con gesti sporadici; con le iridi castane imbibite di disperazione, si passò il panno anche tra le cosce ancora ricoperte dalle calze a rete.

Eppure, le percepiva ancora, quelle mani calde e viscide, che la palpeggiavano ovunque.
Erano troppe e troppo profonde per cancellarle.

Iniziò a tirarsi i capelli.
Doveva fermarle.
Esattamente come le grida strazianti e le risate maniacali che echeggiavano compulsive nella sua testa.

E lei non riusciva mai a farle smettere.
Mai.
Non importava quanto forte urlasse, o quanto si sforzasse di farsi del male.
Giorno e notte, come un vortice senza fine, non faceva altro che essere prigioniera della sua stessa immutabile ed esecrabile ossessione: un verme insaziabile, mai appagato dal sangue della carne, ma esauriente dell'anima stessa.

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