Prologo

59 7 4
                                    

Diciotto ore e otto minuti.
Era arrivato nella Grande Mela a bordo di uno di quegli autobus di linea che sferragliavano e avevano i finestrini rotti, pieni di vecchi dalle facce cadenti come Shar Pei e mani chiazzate di giallo neanche fossero costellazioni.
Durante il loro viaggio la puzza di stantio e di fumo, intriso nella moquette, li aveva accompagnati per tutto il tempo nonostante l’areazione forzata, insieme agli aliti che sapevano di aglio e catarro dei passeggeri.
Era notte quando era partito, con solo una valigia stile anni Cinquanta in una mano e dieci dollari nell’altra: tutta la sua vita tra le braccia mentre se la stringeva al petto nonostante l’addetto gli dicesse di sbolognarla nel portabagagli.
E se l’avessero persa? E se gliel’avessero rubata?
Poi non sarebbe rimasto più nulla di lui.
Così si era impuntato e aveva fatto diciotto ore di viaggio con le ginocchia in gola e gli spigoli della valigia nelle costole.
Aveva passato tutto il tragitto a fissare gli abbaglianti delle altre macchine che scorrevano veloci, in alternanza alla piccola lucina rossa che faceva segno di non fumare a bordo, o che forse serviva per chiamare l’autista.
Non lo sapeva con certezza e si vergognava troppo di chiedere.
Poi aveva chiuso gli occhi per un secondo, le palpebre che sfarfallavano, e quando si era risvegliato gli ampi paesaggi dell’Arkansas avevano lasciato il piede ai claustrofobici grattacieli di New York.
In un battito di ciglia aveva preso un buco di camera d’albergo, con bruciature di mozziconi di sigarette sulle lenzuola e le pareti che trasudavano sporcizia, magari anche qualche escremento di topo in angoli nascosti che venivano però traditi dal fetore che emanavano.
La loro clientela abituale erano poveri squattrinati come lui, prostitute che cercavano di fare qualche soldo senza scopare nei vicoli e spacciatori di quartiere che passavano gran parte del loro tempo a bere.
Non c’era neanche una vera e propria reception, solo un tizio che tossiva e si soffiava il naso in continuazione in un angolo, con un mazzo di chiavi grande quanto una palla da bowling.
Era un brutto posto, ma era l’unico che avesse.
La mattina dopo, con lo stomaco chiuso in una morsa nonostante fossero ventisette ore che non mangiava, si alzò, si preparò, e andò alla ricerca di un lavoro.
Non sarebbe mai più tornato a casa.
Non aveva una casa a cui tornare.

🌹🌹🌹

Il grattacielo in cui aveva un colloquio sembrava tanto una prigione da fuori, con le rifiniture in metallo che brillavano sotto il sole che ricordavano delle sbarre.
Aveva riciclato la valigia che aveva come valigetta, senza metterci davvero qualcosa dentro se non una matita che aveva trovato nella propria camera.
Seduto vicino a lui, in una sala d’attesa spoglia e triste con solo una felce morente in un angolo, c’erano donne bellissime dai tacchi vertiginosi e uomini rasati alla perfezione con completi che probabilmente costavano più dell’intero stabile in cui risiedeva.
Forse avrebbe fatto meglio ad andarsene, quello non era il posto per uno come lui, che come unica cosa da indossare era riuscito a trovare l’abito che suo nonno aveva usato per sposarsi.
Una tizia dai lunghi capelli rossi uscì dalla sala in cui si tenevano i colloqui, l’ufficio del suo possibile futuro capo.
Ad uno ad uno andarono tutti, fino a che non rimase solo lui.
Il suo stomaco aveva iniziato a brontolare ad un tratto e lui aveva cercato di zittirlo con le caramelle che una signora con adorabili zampe di gallina attorno agli occhi teneva sulla propria scrivania.
Ne aveva presa una e quella, mossa a compassione, gliene aveva allungate altre sei.
Lui aveva mangiato con avidità, stropicciando le cartacce per sfogare il nervosismo.
E poi, finalmente, chiamarono il suo nome.
«Jasper Addison.»
Si alzò, si lisciò le grinze del vestito, ed entrò.
L’ufficio era enorme, con due librerie in legno nero ai lati che strabordavano di libri dai più disparati argomenti e dalle costine colorate.
Al centro c’era una scrivania grande e scura, in perfetto ordine, e di fianco a quella una più piccola, con un computer, un telefono e plichi di fogli.
Un mobiletto in cui riporre gli alcolici con sopra tutto l’occorrente per preparare un cocktail, e bicchieri di quello che pareva cristallo.
Un set per giocare a freccette vicino alla porta e uno per il golf proprio davanti al divano che occupava l’ultimo spazio libero della stanza.
Ma ciò che lo colpì non fu nulla di tutta quella opulenza.
Fu la vista.
Una bellissima visuale sulla città che non dorme mai, una di quelle viste che ti fa illudere di essere il padrone del mondo o un Dio per quanto sei in alto.
Fu guardando quella finestra, mentre il giorno diventava notte, che incontrò la sua rovina.
Era seduto sulla propria poltrona, si stagliava contro il sole morente dandogli le spalle, come se uno spettacolo simile non valesse la pena di essere visto perché tanto si sarebbe ripresentato il giorno dopo, e sorrideva alla persona seduta alla piccola scrivania.
«Salve!», lo salutò pimpante quello, coprendosi il viso con una mano e facendo una smorfia, infastidito dal sole.
L’uomo seduto alla poltrona, bello come una divinità, allora si alzò e chiuse le tende, facendo piombare la stanza in una fredda e improvvisa oscurità, ottenendo in cambio un sorriso di ringraziamento da quello che doveva essere il suo attuale assistente.
«Io sono Eric Shayk, sei qui per prendere il mio posto come segretario.»
Jasper avrebbe tanto riaperto le tende, gli mancava già il sole. Era cresciuto correndo all’aria aperta per campi sconfinati, era in quella città da un giorno e già si sentiva soffocare.
«Sono Jasper Addison, è un piacere conoscervi.»
Non c’era una sedia su cui potesse adagiarsi, così rimase in piedi al centro della stanza.
Il tizio seduto alla grande scrivania non si sedette, lo scrutò, gli sorrise in modo caloroso, e poi allungò una mano.
«Io sono Michael Wyatt, CEO della Wyatt & Co. la nostra azienda si occupa di un po’ di tutto, siamo una casa editrice, una cinematografica. Di tanto in tanto facciamo anche mobili. Siamo dei tuttofare», spiegò quasi ridendo.
«Essere il suo segretario non è proprio la definizione corretta di questo lavoro», offrì Eric, mentre le gambe iniziavano ad indolenzirsi, «A Mikey serve quasi una badante: dovrai accompagnarlo anche nella vita di tutti i giorni e fare tutto ciò che ti dice, persino passare in lavanderia al posto suo e masticare al posto suo se te lo chiede», Eric lo disse con gli occhi che brillavano e Jasper non seppe come rispondere, così non disse niente.
Poco dopo sia Eric che Michael scoppiarono in una grossa risata.
«Smettila, così lo spaventi e mi dipingi come un mostro!», Michael diede un buffetto sul braccio ad Eric, ridendo fino alle lacrime.
«La verità è che mi servirà la tua totale disponibilità perché più tempo risparmio per me più ho da dedicarne all’azienda e più alti saranno i salari di tutti», l’espressione che aveva in viso mentre lo spiegava era come miele, mentre i suoi occhi saettavano da Jasper a Eric.
«Certo», Jasper non era mai stato un tizio curioso di natura, ma in quell’occasione non poté fare a meno di chiedere, «Come mai il signor Shayk lascerà questo lavoro?»
«Ho una fidanzata e questo lavoro, per quanto ben pagato, mi toglie davvero troppo tempo. Voglio stare di più con lei», nonostante il sole fosse sparito a causa delle tende, Jasper poté comunque sentire del calore irradiarsi dalla faccia adorante di Eric, «Ma non preoccuparti, ho lasciato istruzioni dettagliate e di tanto in tanto verrei a trovarvi, questo zuccone e io siamo amici dai tempi delle superiori in fin dei conti».
Michael sembrava una persona così disponibile e dolce.
«Adesso: quali sono le tue competenze? Convincici a darti questo impiego.»
Michael si mise comodo contro lo schienale della sua poltrona imbottita mentre Jasper continuava a stare in piedi.
«Sono appena arrivato in città: non ho né amici né una famiglia quindi potrei dedicare tutto il mio tempo a questa azienda, senza distrazioni o complicazioni.»
Gli sembrò sufficiente, non pensava ci fosse bisogno di aggiungere altro.
Michael e Eric si scambiarono un’occhiata, mentre questo sfogliava un plico.
«Non vuoi dire altro?»
«Non credo serva. Se anche non sapessi fare qualcosa avrei modo di imparare grazie alle tue istruzioni. Da come mi sembra di capire vuoi una persona reperibile h24, beh, sono io quella persona.»
Fece spallucce e si rilassò, era soddisfatto della sua risposta.
Sorrise anche, visto che gli sembravano davvero amichevoli quei due.
«Voglio lui. Sei assunto», sentì esalare Michael, che lo fissava annuendo.
«Questa proprio non me l’aspettavo», commentò Eric, alzandosi e andando verso il mobiletto degli alcolici per versare tre gin, «Sono settimane che facciamo questi colloqui, sai?», raccontò porgendogli un bicchiere, «E per i primi tempi questo zuccone li ha evitati, poi ha fatto lo stronzo apposta per spaventare i candidati, dopo mi ha offerto un aumento che mi ha fatto vergognare perché rimanessi. E ora arrivi tu e lo convinci in poche parole. Ti dirò: sono sollevato, avevo davvero paura non avresti trovato nessuno», diede l’ultimo cristallo a Michael, che lo guardò con aria malinconica.
«Beh, a quel punto sarei rimasto da solo, visto che tu te ne saresti andato comunque.»
Ci fu qualcosa tra quei due, uno scambio silenzioso, mentale e triste.
«Già, me ne sarei andato qualsiasi cosa avessi fatto.»
L’incantesimo venne spezzato dal tintinnio dei loro bicchieri che si toccavano, mentre Jasper rimaneva in disparte con il suo, in piedi.
«Dimmi, ti va una partita a mini golf? Questo set è fantastico, Michael se lo è fatto installare un paio di anni fa, quando abbiamo iniziato a giocare, da allora apriamo una bottiglia di vino e mandiamo una palla in buca ogni volta che un affare va a buon fine. Vedrai, ti piacerà come tradizione.»
Jasper venne trascinato da Eric verso il gioco e si ritrovò con un ferro in mano.
Sentiva lo sguardo di Michael addosso, che strisciava sulla sua nuca e scendeva verso il basso.
Alla fine si unì anche lui, brindando felice e circondando le spalle di Eric con un braccio.
«Come farò senza di te?», piagnucolò con fare teatrale e sorridendo.
«Come farà lui con te casomai!», gli rispose per le rime Eric, «Sono così felice di poter dormire la notte finalmente. Tu non hai idea Jasper, questo è capace di chiamarti anche alle quattro del mattino solo per il gusto di sapere che risponderesti. Dannato stacanovista ubriaco di potere. Non e ripeto non, rispondergli, o sarà come dargli il via libera per farti chiamare quando vuole. Imponi degli orari in cui non ci sarai e rispettali!», Eric tirò una guancia a Michael, che scoppiò a ridere.
Sembravano davvero in ottimi rapporti e Jasper si sentì grato di aver ottenuto il lavoro, magari sarebbe stato impegnativo, stancante, drenante, ma il suo capo gli piaceva.
Era una brava persona a giudicare da ciò che aveva visto ed era amico dei suoi dipendenti, magari si sarebbero anche divertiti insieme brindando con del vino e giocando a golf.
I bicchieri di cristallo vennero riempiti di nuovo e Jasper sorrise felice per la prima volta da quando era arrivato in quella città.

🌹🌹🌹

Due giorni dopo si presentò in ufficio in perfetto orario con un completo nuovo pagato dall’azienda, dal suo nuovo capo per la precisione, ritirò il badge e il telefono aziendale, non che ne avesse uno personale tanto, e poi rubò una caramella a Suzie, che lo aveva preso in simpatia da subito.
Andò in bagno a darsi un’ultima controllata e si sentì felice dell’immagine che gli restituì lo specchio.
Non vedeva l’ora di entrare nel suo nuovo ufficio, sedersi alla scrivania con accanto quel dio greco sceso in terra, e aprire le tende per far entrare un po’ di sole.
Quindi quando aprì la porta e si ritrovò davanti una stanza quasi vuota, la sua sorpresa fu facile da leggergli in viso.
Il suo capo non era ancora arrivato, o forse sì, non avrebbe saputo dirlo scioccato com’era da tutto il resto: la piccola scrivania era sparita, la pista da golf anche, idem le freccette, e al posto delle tende erano stati installati dei pannelli di legno.
Restavano le librerie, ora però spoglie di tutti i titoli colorati e le cianfrusaglie stravaganti che evidentemente aveva messo lì Eric di ritorno dai loro viaggi di lavoro, il divano e la scrivania del capo.
Jasper si guardò in giro spaesato, incerto su cosa fare.
Magari li avevano derubati.
Proprio allora fece la sua comparsa Michael, bello come il peccato, con la barba incolta e la cravatta annodata male, i vestiti stropicciati. Forse era reduce da una notte di bagordi visto le enormi occhiaie che aveva sotto gli occhi.
«Buongiorno!», esclamò contento Jasper, regalandogli un sorriso e ricevendo in cambio un’espressione contrariata.
«Ok senti, sunshine boy, non mi interessa il tuo nome quindi non sprecare neanche tempo a correggermi. La mattina devi venirmi a svegliare alle sei e trenta spaccate: piove, nevica, tira vento, c’è il cazzo di uragano Katrina, non mi interessa. Se ho qualcuno nel letto, reduce dalla notte precedente, lo devi cacciare a calci in culo, anche a costo di trascinarli di peso e farti venire un’ernia al disco. Come colazione ordino ogni santo giorno che Dio manda su questa terra un bagel con cream cheese al salmone e uova strapazzate molto bavose alla caffetteria all’angolo dell’incrocio di casa mia. Ogni cosa che io ti darò da fare, tu la farai e non voglio sentire lamentele. Se stai male, soffri in silenzio. Se ti chiamo, rispondi. I tuoi problemi non sono rilevanti quindi risolviteli da solo e fai in modo che non intralcino il lavoro. E per concludere», si fermò un secondo prendendo un sorso di caffè, «Io e te non siamo amici. Dimentica qualsiasi cosa ti abbia detto Eric. Noi non manderemo le palle in buca e non brinderemo con del vino alla fine di un affare da un milione di dollari portato a buon fine. Tutto chiaro, sunshine boy
Jasper deglutì: che fine aveva fatto la persona di pochi giorni prima? Quella che rideva e scherzava e gli versava da bere con Eric?
«La mia…scrivania?», azzardò.
Michael sollevò un sopracciglio, «Si stava troppo stretti qua dentro con due scrivanie, cercatene una di là o usa il divano, non mi interessa. C’è anche uno sgabello se proprio devi rompere.»
Sgabello? Divano? Come poteva redigere conti e altre cose senza neanche un tavolo?
Forse era tutto uno scherzo, ma sì, doveva esserlo per forza.
Fissò per bene Michael, che lo scrutava con aria annoiata, «Così mi sciupi sunshine boy, dimmi cosa vuoi o iniziamo a lavorare, che avrò di sicuro una giornata piena di impegni».
Era vero, aveva controllato l’agenda appena ricevuto il telefono, non avevano neanche un momento da perdere.
Si guardò intorno, per lui non c’era neanche una sedia, così rimase in piedi, come due giorni prima, ma questa volta mettendosi di fianco al suo nuovo capo che puzzava di vodka e vomito.
«Le tende?», chiese solo, sentendo la mancanza del tepore del cielo.
«Preferirei avere una pistola puntata ai gioielli di famiglia che avere questa cazzo di stanza inondata di luce, era a Eric che piaceva anche se rischiavamo di accecarci tutti i giorni.»
«Capisco.»
Jasper raddrizzò la schiena, guardando il muro di legno, poi sbloccò il telefono e iniziò a leggere gli impegni della giornata, il sorriso che a mano a mano abbandonava sempre di più le sue labbra.
Aveva capito tutto ora.
Il sole non sarebbe più entrato in quella stanza.

***Spazio autrice***
Altro giro, altra corsa.
Bello il cambio repentino di Michael eh? :D Un vero tesoro sarà.
Finirà bene? Finirà male? Ma poi cosa vuol dire bene o male, per chi?
Questa nuova avventura avrà vita breve, specie dopo lo scherzetto che mi è capitato con una mia ff vecchia.
Non so neanche se sarà il mio ultimo tentativo con wattpad dopo ciò che è successo, ora come ora sono anche tentata di levare subito Raspberry.
Vedremo come andrà, se con Secretary ne varrà la pena.

Allora, che ne pensate?
Vi ho incuriosito?
Se il capitolo vi è piaciuto al solito lasciatemi una stellina, un commento, seguitemi su Instagram e qui su wattpad e noi ci vediamo venerdì col primo capitolo🌹

Secretary (Suit And Tie #1)Where stories live. Discover now