X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 3

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«Buongiorno,» replica, senza nascondere bene la perplessità. «Posso aiutarti?»

In tutta risposta, il ragazzino allarga le spalle e le braccia in un moto indignato.

«Commissa'! Ma che ve site scurdato 'e me?»

Ricciardi assottiglia un poco gli occhi, mettendolo meglio a fuoco. Stralci di ricordi gli riaffiorano in controluce. Una grigia giornata di novembre, pioggia fredda e gelida; quel caso terribile, così simile a questo, che gli aveva fatto prendere un malanno e conclusosi con un incidente che gli aveva quasi tolto la vita.

«Cristiano,» ricorda, senza nascondere la sorpresa. «Certo che mi ricordo, sei l'amico di Tettè.»

Lui annuisce con entusiasmo, quasi gongolando nell'essere riconosciuto, a dispetto dell'associazione infelice col suo amico non più in vita.

È più alto, ora, ha il viso meno pieno, più pulito, e un ciuffo di capelli scuri che gli sbuca da sotto la coppola. Ma è senza dubbio il ragazzino che, un anno fa, gli si è accodato durante un'indagine non meno cupa di questa: un'altra giovane vita stroncata, un altro delitto sordido che lo perseguita. Però a Tetté, quel bambino avvelenato e lasciato esanime sugli scalini di una piazza, ha reso giustizia, mentre Annina ancora la esige trenta metri sottoterra. Gli sembra una manovra del fato, ritrovarsi a intersecare l'ombra di quel delitto atroce proprio ora.

«Dimmi, che c'è? Mi stavi cercando?»

«E pecché stessi a truvà a vuje?» risponde lui, in quel modo assolutamente indelicato, eppure spontaneo, che usano i bambini. «Però quanno v'aggio visto ve dovetti fermà pe' forza. Tenevo che fa' nu saluto, no?»

«Capisco,» replica lui, anche se gli sembra di non capire affatto, e non solo per la lingua verace che usa.

Qualcosa, nei movimenti di Cristiano, gli suggerisce che quel saluto non sia semplice cortesia, anche se la contentezza nel rivederlo sembra genuina; ma non ha tempo da perdere, soprattutto non con un minore e in bella vista, data la situazione spinosa in cui si ritrova.

«Se non c'è altro, Cristiano, ti ringrazio del saluto, ma ora devo lavorare. Ho un'indagine in corso.»

Gli rivolge un piccolo sorriso e un cenno frettoloso del capo e si volta per imboccare il vicolo.

«'Spettate, commissa'!» lo richiama lui, tirandolo per una falda del soprabito.

Ricciardi si gira un po' troppo bruscamente, sbarrando un poco gli occhi e tirando via di scatto il lembo di tessuto dalla sua stretta. Cristiano lo molla all'istante e scansa il capo in un riflesso istintivo. È probabile che più di un adulto gli abbia rifilato un manrovescio per molto meno e legge nei suoi occhi la ritrosia di un animale spaurito e pronto alla fuga. Ricciardi si caccia le mani in tasca in un moto frustrato e un poco colpevole, domando l'agitazione; Dio, perché deve sentirsi un criminale?

«Cristiano, se vuoi dirmi qualcosa, dilla e basta,» dice infine, con una stilla d'autorevolezza più marcata. «E dilla chiara,» aggiunge, sperando di indurlo anche a parlare in un italiano un po' più orecchiabile.

«Scusate, non è che vi voglio far perder tempo,» esordisce lui, accogliendo l'invito implicito con un po' di sforzo. «È che ho saputo di Annina.»

A quelle parole, Ricciardi fatica a non rimanere a bocca aperta e trattiene un sobbalzo. Fa scattare lo sguardo attorno a sé, perché Cristiano non sta affatto usando un tono pacato; anzi, adopera naturalezza disarmante, con una nota di mestizia affatto adatta a un ragazzino.

Nel modo più gentile e meno invasivo possibile, lo sospinge senza toccarlo oltre l'arcata dell'Annunziata, all'ombra del passaggio a volta e più al riparo dagli occhi dei passanti del vicolo. Al momento è deserto, al contrario del chiostro, nel quale il gruppetto di scugnizzi si è calmato e pare stare trattando una sorta pace. Si sente gli occhi invisibili di Falco infissi nella nuca.

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