L'amica si morse il labbro inferiore e arricciò le sopracciglia. Trattenne a stento un sospiro preoccupato e, mentre salivano entrambi nella volante, tirò a indovinare. «Ancora il caso dei fratelli Pounders?»

Lui replicò con finta indifferenza: «Niente di cui non possa occuparmi» D'istinto, strinse con tempra il volante, celando dietro a un mezzo sorriso il senso di amarezza che gli avvolgeva la gola e il cuore.

«Lo sai che con me puoi confidarti», continuò Sienna, giocherellando nervosa con il braccialetto d'oro che aveva al polso. Aggrottò la fronte e, con esitazione, gli lasciò una lieve carezza sulla spalla per trasmettergli vicinanza. Poi si morse l'interno della guancia e accettò la volontà dell'altro di non parlarne oltre. 

Il viaggio in direzione del Manhattan Nexus Health Center si era rivelato più calmo del solito. L'atmosfera era un'odissea intinta di disagio e il cockpit della vettura era denso di un atipico silenzio, interrotto solo dal monotono mormorio proveniente dalla radio accesa. Dave, con gli occhi fissi sulla strada, poteva percepire il peso dell'incertezza, come se ogni semaforo rosso fosse un'esitazione nell'affrontare ciò che gli attendeva. Sienna, accanto a lui, guardava fuori dal finestrino, scrutando i volti impersonali delle figure che attraversavano il marciapiede, come se cercasse risposte nei loro sguardi. La radio, con la sua musica indistinta, sembrava tentare invano di colmare quel vuoto persistente.

Dopo una ventina di minuti arrivarono a destinazione; parcheggiarono in una delle poche postazioni preposte ancora libere. 

Scesero dall'auto e si diressero di corsa verso l'ingresso principale dell'ospedale.

Una volta raggiunto l'interno, le loro narici vennero accolte dall'inequivocabile odore di disinfettante e cloro. La sala d'attesa era popolata da una varietà di persone, alcune ansiose, altre impazienti, ciascuna con la propria dose di dolore e speranza. Le sedie scomode parevano cullare attese infinite, mentre lo scandire sommesso di una vecchia sveglia faceva da sottofondo al brusio tenue delle conversazioni.

I poliziotti si avvicinarono alla reception, dove una ragazza dai capelli castani e un'espressione gentile li accolse dietro al bancone. Li salutò con cordialità e dopo averli ascoltati, indicò loro la posizione della stanza trecentocinque: quella dove si trovava Monroe. 

I due la ringraziarono, e con complicità si diressero verso l'ascensore.

In un lampo, si ritrovarono a superare la porta dell'obitorio, situato nella parte anteriore del seminterrato.

L'ambiente dalle pareti bianche e asettiche, per lo più impregnate dalla puzza di formaldeide, disegnava in modo ineccepibile un luogo in cui la fredda realtà della morte emergeva in tutta la sua crudezza. Persino la quiete, rotta solo da qualche macchina infermieristica, aggiungeva una sfumatura triste ma concreta alla scena. Il tavolo d'esame centrale, pieno zeppo di fotografie del corpo di Melanie, attirò nell'immediato l'attenzione di Dave. Le immagini rivelavano ogni minuscolo dettaglio; ogni segno di violenza e sopruso subìto dalla vittima veniva messo in mostra come una rappresentazione teatrale drammatica. 

Dave impallidì e, colto da una scintilla d'ira, serrò la mascella. Si mise le mani nelle tasche e, per mantenere il controllo della situazione, iniziò a gingillare irrequieto con il portachiavi.

Il patologo forense uscì dall'archivio medico e li salutò. Prima di indossare dei guanti monouso, prese una copia del fascicolo tra le dita e si preparò a condividere i risultati con i detective, amici di una vita. Di dirimpetto, si avvicinò alla parete della Morgue per aprirla e tirare fuori la salma preservata della ragazza deceduta. 

«So che questo è un caso particolare, ma voglio affrontarlo nel modo più professionale possibile», pronunciò Monroe. Poi puntò le iridi color nocciola in direzione di Dave. Aveva esaminato il fascicolo più e più volte, cercando un modo per poter esporre i risultati senza aggiungere ulteriori pesi sulle spalle dell'amico. 

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