VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 2

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Vorrebbe dire allontanare Bruno, rifuggire quell'unica stilla d'amore che s'è concesso nella propria vita.

Getta fuori un respiro più sonoro, sobbalzante. Ciò che lo adira di più, di tutto questo, è che dovrebbe pensare solo e soltanto al fantasma di Annina che grida sotto casa sua: dovrebbe occupare ogni singolo momento della sua veglia, come sempre quando un fantasma lo chiama.

Invece, si ritrova la testa invasa di futilità, di paure mordaci che gli impediscono il passo. Di chimere, forse, create dalla propria stessa mente, perché l'idea di venire arrestato o rinchiuso in manicomio perché vede i morti, come sua madre, si è acuita in modo assillante da un mese a questa parte, da quando Bruno non è più solo Bruno e ha dato alla sorte un altro valido motivo per bollarlo come pazzo.

Tutto ciò lo terrorizza, in superficie, ma una parte recondita del proprio essere, quella che ha rinchiuso dentro se stesso quando era appena un bambino, gettando via la chiave, si chiede se non sia forse giusto. Se la solitudine che si è imposto per anni non fosse solo il preludio a quella impostagli da qualcun altro, in una cella, per il proprio bene e quello degli altri; perché la follia ha sempre fatto parte di lui, pure se preferisce chiamarla "maledizione". Ce l'ha scritta nel sangue, eredità tossica di una madre che gli ha taciuto tutto, ed è svanita consumata da quello stesso male.

Si impone di ragionare lucidamente, di riprendere il controllo su quelle scintille di pensieri imbizzarriti, ma non ci sta riuscendo bene, affatto.

Si stropiccia gli occhi doloranti e deglutisce a fatica, ritrovandosi la bocca arida. Non tocca cibo né acqua dalla mattina, se non per quel caffè di cicoria a casa di Bambinella, e un'ondata di spossatezza lo investe dall'alto, avvolgendo ogni suo muscolo di una patina rigida e scricchiolante nel gelo.

Non è nelle condizioni per agire d'impulso. Deve imporsi di aspettare, per ora; domare l'angoscia che lo perseguita da giorni e ragionare con lucidità sulle sue prossime azioni.

È una linea d'azione che mal sopporta quando gli viene imposta da qualcun altro, e che è ancor più insofferente ad accettare da se stesso. Ma deve farlo; per il suo bene e per quello di Bruno. Ha ignorato l'avvertimento di Livia in prima battuta, ma non è così sciocco da ignorare anche quello di Bambinella.

Delibera, infine, che passerà in Questura per verificare almeno se vi sia già Iannello in fermo, oltre a Maione in sua attesa, e poi andrà dritto filato a casa a concedersi una cena calda e una notte di riposo. Vincerà la nausea nel mangiare e si tapperà le orecchie per non sentire Annina, se necessario, anche se è meschino pensare di metterla a tacere in qualsivoglia modo, lei che già non ha più voce tra i vivi.

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

La sua voce sembra arrivare fin lì, tra i vicoli asfittici della città.

Gli sembra assurdo, ingiusto, che una bambina abbia potuto avere più coraggio di lui, un uomo adulto e ufficiale di legge che dovrebbe essere incaricato di proteggere e aiutare i più deboli, gli inermi. Gli invisibili che gli si aggrappano alle vesti dai vicoli e dagli angoli dimenticati.

È in quel turbinio rumoroso di pensieri, mentre si stropiccia il punto dolente dietro agli occhi, che si rende conto, con un fremito elettrico che gli solletica i nervi, di essere osservato.

Dapprima, è un'impressione dettata dalla paranoia latente, dalle parole di Livia, prima, e di Bambinella, poco fa. Poi, diventa un'entità tangibile, come avere qualcosa di leggero ma fastidioso attaccato alle spalle, che fruscia a ogni movimento.

Solleva di scatto il capo, guardando l'uscita del vicolo e aspettandosi di vedervi uno spettro. Vi trova invece un'ombra, quasi tutt'una col muro fatiscente appena dietro. Cappotto lungo, mani in tasca, borsalino a tesa ampia a scurire il volto.

La Ruota degli AngeliWhere stories live. Discover now