sole al funerale

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❝ Cupo è il colore del cielo d'autunno
luce delle pupille di un cavallo nero
L'acqua si secca, i gigli cadono
ah, quale vuoto nel cuore ❞
Nakahara Chûya, L'ora estrema

Casa è queste mura in pietra, quest'angolo di ombre e vecchi libri, questo letto dalle lenzuola tinte di stelle e con del rosso sul blu. Casa è grande, così grande che ospita entranei là per errore. C'è un camino e dei piatti sul tavolo ai pasti, ma le braci nessuno le smuove e mi fa troppo male la gola per provare appetito, non credo di sapere neanche più che sia, m'ingozzo di zucchero e cacao al posto di studiare e arrivo sempre a cena che sto per vomitare tutto — ma non lo faccio, sarebbe disdicevole trasformare anche la dolcezza del glucosio in amaro e lacrime e bruciore in quel bagno che non vede altro.

I pasti m'opprimono, non vedo il senso di nutrire questo mucchio di organi maldrestramente assembrati, funzionanti ma difatti sacrificabili come l'impermeabile che non uso mai per schermarmi dalla pioggia perché anche lui che è lì per quello non riesce a farlo; eppure l'indosso a ogni stagione, ché tanto non cambia nulla, lo metto a coprirmi le spalle sperando che del triste tessuto nero funzioni da sé come quei miei polmoni infelici, e l'aria fredda mi trafigge dall'interno mista alla pioggia, fonte di vita che non ho chiesto.

Non mi è mai piaciuta la pioggia. A tratti comprendo perché lo chiamano maltempo. Ma il tempo non è cattivo, o perlomeno non possiede ciò che noi definiamo "volontà" di esserlo, ma di cattiverie ne fa eccome, ed io patisco anche a causa sua e come ultima preghiera chiedo che il giorno in cui vi saluterò tutti splenda alta in cielo quella stella cui calore ho sempre sofferto, ché dispiacersi nelle giornate cupe è comune e piangere col beltempo è possibile.

Comunque vadano le cose, ho il sospetto che quella non sarà una giornata triste: deprimente, al massimo. Gli unici che non si deprimono al sole di un funerale sono i morti e gli imbecilli. È uno di quegli istanti in cui perfino il lutto appare sbagliato, oppure superfluo, soprattutto in primavera; mi chiedo perché. Perché troviamo alieno che i fringuelli e gli insetti nei cimiteri vivano la loro vita durante un'omelia mentre, anni addietro, abbiamo tutti riso quando il bambino appena nato piangeva?, con una sofferenza e una paura di vivere, poi, che reputo a dir poco agghiacciante. Come si faccia a gioire in quel momento, io non me ne capacito: trovate davvero così divertente la sofferenza di chi è incapace di nasconderla, o di sopportarla?... Non lo so. Dubito di poter comprendere i pensieri o le emozioni di quel neonato dal volto deformato dal pianto e dalla urla, forse la sua è solo paura nei confronti di una vita che, tagliato il cordone ombelicale, dovrà affrontare da solo. Non riesco a biasimarlo.

Ieri ho visto una bambina al supermercato, troppo piccola per capire gli argomenti degli adulti e troppo grande per divertirsi ad essere portata dentro il carrello in metallo: camminava affranta appresso alla madre, con una vita intera davanti e la noia negli occhi. Quella noia mi ha turbato. Sembrava una bambola rotta, sembrava: strascicava i piedi senza parlare, collo sguardo fisso e spento, il giubbotto color zucchero filato. Mi hanno detto che l'arte nasce dal dolore, ma non c'è garanzia che quella piccina diventi qualcuno. Forse lo diranno anche a lei, fra qualche anno: tenteranno di consolarla con questa frase nauseante, come se il dolore fosse un presupposto per la bellezza o come se portasse qualcosa di positivo, mentre lei inizia a sprofondare nella convinzione che il suo dolore sia rotto perché non riesce a dipingere, non riesce a scrivere, non riesce e basta. Questione di tempo prima che le parole confortanti diventino solo minimizzanti, perché ci sono passati tutti e l'adolescenza è così, fa male, fa schifo, odi il mondo ed è normale, poi passa. Ma non lo fa, ed è ironico, non trovate? Nuove stagioni, nuovi colori del giubbotto, e l'esistenza è un insieme di ricordi masticati dal tempo e dall'amor proprio.

Mi chiedo distrattamente se anche lei la notte inzuppi la federa di lacrime, se guardi il cibo nel piatto con scontentezza, se rimanga in silenzio mentre gli altri bambini urlano e giocano, con unica preoccupazione i rimproveri delle madri per i vestiti sporchi d'erba quando torneranno a casa. Mi chiedo a che sia dovuta quella noia, quell'apatia insofferente di chi non sta né bene né male, e mi chiedo chi sia stato a spezzarle il cuore.

Ma forse parlo per dar voce ai pensieri, aria a una bocca che non apro mai: quella ragazzina non la vedrò più, tempo pochi giorni e dimenticherò il suo volto, chi soffre è uno sconosciuto anche per i parenti e io non sono nessuno per atteggiarmi a qualcuno in grado d'aiutare: figurarsi, a notare la sofferenza son capaci anche gli idioti, ma chi aiuta è disposto a sacrificare un po' del suo bene a chi di turno, e io non credo d'avere più nulla che valga la pena di donare; chi le vuole delle bende sporche di sangue secco sul fondo del mio zaino e cocci d'uno specchio infranto ancora sparsi a terra chissà dove, chi?

Anche l'autocommiserazione ha perso il suo fascino. Leggo poesie d'amore quando sento di non averlo mai provato: i miei occhi sono troppo arrossati dal pianto per essere belli e le mie mani troppo fredde e scorticate per essere strette. La passione non so che sia, il desiderio neppure, e dubito qualcuno l'abbia scoperto grazie a me — il mio riflesso è un incubo che farebbe ribrezzo a un criminale tanto sono incapace a mascherare ciò che sento. Ho tentato di migliorarlo come posso, quel riflesso, ma è come addobbare a festa una catacomba decadente, questo mio taglio di capelli improvvisato alle quattro del mattino non lo noterà nessuno e va così, non ho davvero voglia di biasimare alcunché per questo, tanto mi fa schifo e ci sono abituato.

Vado in quel letto dalla trapunta blu di malavoglia, mi chiedo perché sia ancora qui e poi realizzo di non aver preso quelle pasticche datemi oggi dal dottore, ma di nuovo non ho voglia di alzarmi né di dormire, e per quanto efficaci quelle fanno effetto dopo qualche ora e io non ho tutto quel tempo, voglio scomparire adesso e voglio sentire qualcosa che non sia il freddo sulla mia pelle, voglio morire vivere sciogliere quel nodo che mi stringe il petto ma alla fine piango e basta, col pensiero che quelle pasticche le prenderò domani perché, che io lo voglia o no, di nuovo aprirò gli occhi pensando al sole di un funerale a cui non potrò assistere.

D'EPITAFFI SBIADITI ─ one-shotWhere stories live. Discover now