III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 1

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Caterina rilascia un lieve sospiro, che si conclude in un lieve colpo di tosse, soffocato con prontezza contro il palmo guantato.

«Perdonatemi, commissario. Come potrete immaginare, l'evento mi ha scossa. Chiedete pure ciò che volete,» si ricompone, addolcendo un poco le parole, «anche se temo di potervi aiutare ben poco. Spero che quel poco possa bastarvi.»

Una vibrazione più intensa scuote quell'ultima frase. A Ricciardi non dà l'impressione di qualcuno che fosse del tutto estraniato dal proprio coniuge, come suggeriva Livia. È anche vero che ha avuto a che fare con abbastanza artisti, Livia inclusa, per imparare a diffidare delle apparenze.

«Perché dite questo?» chiede Ricciardi, aprendo il taccuino davanti a sé.

«Le domande di carattere personale possono dare ben pochi frutti, dato che ci vedevamo di rado.»

«Quanto spesso, di preciso?»

«Da qualche mese sono in degenza all'Ospedale del Littorio a Roma, per la mia malattia polmonare. Sono in attesa che inaugurino il sanatorio, se mai sarà per tempo,» aggiunge, con un sorriso pungente. «Fernando mi ha fatto visita una volta al mese da allora. Ho smesso di cantare poco prima di Natale, quindi non vi era occasione di vederci alle mie esibizioni, come di consueto.»

«Fatemi capire,» interviene Maione, inserendosi con tempismo, «prima del vostro ricovero, vi vedevate unicamente ai vostri concerti?»

«Sì,» risponde Caterina, come se stesse ribadendo l'ovvio.

«Dunque, non vivevate assieme?» Ricciardi riesce a mantenere un tono neutro, anche se a stento.

«Non credo sia un crimine,» conclude lei, alzando il mento. «Almeno per ora. O volete imporre forse la tassa sul celibato a un morto?»

Ricciardi pensa fugacemente che questa donna starebbe simpatica a Bruno.

«Cerchiamo solo di capire in che rapporti foste,» la placa subito dopo, avvertendo un punto sensibile fin troppo ovvio. «Non abbiamo alcun interesse nel giudicarli.»

Non sarebbe comunque la persona più adatta per farlo, in effetti.

«Commissario, Fernando e io ci siamo incontrati e sposati in fretta e furia durante la guerra, mentre lui era in permesso,» esordisce allora lei, come rassegnandosi a dare spiegazioni. «È stata un'avventatezza dettata dal timore di non rivederci. Un'avventatezza che si è rivelata tale dopo pochi anni ma che, in fin dei conti, era la cosa migliore che ci potesse capitare.»

«Non provavate alcun astio per questo matrimonio infelice?» indaga Maione, e Ricciardi gli scocca un'occhiata d'avvertimento: quella gli sembra più una curiosità personale che legata al caso.

«Non ho mai detto che fosse infelice,» lo corregge lei, volgendo il capo verso il brigadiere. «Io cantavo l'opera, lui scalava i gradi militari. Lui assisteva ai miei concerti, io alle sue parate e ricevimenti. Io vivevo nella mia amata Roma, lui nella sua amata Napoli. Se avessimo voluto, avremmo potuto interrompere del tutto i rapporti, ma così non è stato. Perché, di fatto, non eravamo infelici e non desideravamo nulla di più l'uno dall'altro.»

Ricciardi non riesce a camuffare del tutto il misto di meraviglia e scetticismo che gli si dipinge in volto di sua sponte, misto a un'emozione estranea che di rado gli capita di provare: invidia. Si trova a invidiare la vita dei coniugi Gigliolo, così inconsueta e quasi eversiva, eppure in qualche modo vera, esistente. Felice.

Perde il ritmo e non si inserisce come dovrebbe nella catena di domande dell'interrogatorio, suscitando uno sguardo perplesso dal collega, che è comunque pronto a riprendere il timone:

«Non ci risultano figli. È corretto?»

«Non che io sappia,» replica lei, con assoluta tranquillità, per poi notare il sussulto affatto discreto di Maione e inclinare di lato il capo, quasi divertita. «Non indagavo sulle frequentazioni di mio marito, brigadiere, ma non è un qualcosa che mi avrebbe nascosto. Né io a lui.»

La Ruota degli AngeliWhere stories live. Discover now