203. Fanciullezza

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Una piccola figura si allontana dalla costruzione dove la confusione regna sovrana, per colpa di qualche bimbo dispettoso ma, soprattutto, vivace.

Il bimbo sa che sarebbe giusto tornare indietro e aiutare la ragazza che prova a domarli senza tanto successo, ma vuole un attimo di tempo per sé. Ogni tanto qualcosa dentro di sé tira e vorrebbe solo sparire tra le sue terre, essere importante tanto quanto una foglia su di un albero in un bosco qualsiasi.

Ma non può, la ragazza impazzirebbe. E forse arriverebbe davvero al punto di strangolarlo a morte, come tante volte minaccia gli altri.
Quindi si accontenta di uscire nel giardino di quella bella e spaziosa abitazione e rifugiarsi sotto un albero.

Tra le mani stringe trionfo un manoscritto quasi nuovo, arrivato qualche giorno prima, e ciò aveva adirato la ragazza, anche se lui non aveva capito bene il perché. E tutt'ora non lo capisce.
L'opera è nuova, rifinita, più pregiata, forse, dei libri che hanno già letto e studiato. E poi, conosce già la storia e non vede l'ora di rileggerla.

Quindi apre la prima pagina con reverenza e inizia a leggere a mezza voce l'Iliade tradotta in latino.
È strano; è così abituata al greco. I suoni dell'altra lingua sono diversi, quasi sbagliati, dato tanto è abituato a quelli con cui è stato cullato al sonno molte notti.

Però non sono sgraditi. Sono solo nuovi. Ma una cosa nuova non è per forza sbagliata, no?
Un fruscio lo distrae dalla sua lettura, ma fa finta di niente e lentamente alza la testa, mentre la narrazione s'interrompe in un ingarbuglio perché latino e greco si mischiano sulla sua lingua, tra novità e ciò imparato.

Incrocia con lo sguardo un bimbetto che si blocca sul posto e spalanca gli occhi all'esser stato scoperto.
<Tu, lì-> lo richiama Tacitus, a corto di parole.
Il bimbo, se possibile, spalanca ancora di più gli occhi ed è sul punto di piangere.
<Non ti faccio niente!> rassicura allora l'essere sovrannaturale, sperando di riuscire nel suo intento <Sono solo curioso.>

Il bimbo strizza gli occhi e, a parte due lacrimoni che gli scorrono velocemente giù per le guance, si calma. Infatti si avvicina di qualche passetto e farfuglia, in quel latino mutato del popolo: <Sentivo da dentro e mi sembra quando mamma mi racconta storie ma è diverso e->

Tacitus alché sorride e lo interrompe con garbo: <È la stessa lingua> e indica il libro <Ma questa è come la parlano i potenti.>

<Tu sei un potente?> si spaventa il bimbo, arretrando in fretta di qualche passo, indeciso se scappare o prostrarsi come mamma gli ha insegnato.
<Mia... mia sorella conosce potenti. Io non lo sono. Ma dobbiamo parlare con loro, ogni tanto, io... e i miei fratelli. Quindi impariamo la lingua dei potenti.> il non-umano mente a fin di bene.

Il bimbo aggrotta le sopracciglia, ma dato che Tacitus non gli dà l'aria di essere minaccioso, si avvicina e gli si siede di fianco, anche se un po' distante.
Allora il piccolo territorio riprende a leggere con un tono un po' più enfatico, per come riesce senza, per abitudine, tornare a parlare in greco.
Piano piano il bimbo si avvicina fino a che, ad un certo punto, il bimbo non si assopisce, cullato dai canti di Omero che non capisce per intero. E si appoggia, senza saperlo, contro la spalla di Tacitus.

Per un attimo il territorio si blocca e fissa attentamente il bimbo. Poi abbozza un sorriso e continua a leggere, finché la gola non è troppo secca per i suoi gusti.
Chiude il pregiato libro e se lo mette sottobraccio, dal lato opposto a dove il bimbo è appoggiato contro di lui.
Con tutta calma appoggia il fanciullo contro l'erba. Gli lascia un candido bacio in fronte, si alza e torna in casa, dove i suoi "fratelli" sono impegnati... a dormire.

•~-~•

Giordano, nella quiete del giardino interno di quel castello, suona il suo mandolino e canticchia un motivetto inventato, leggero.

Si perde nel piacere di suonare mentre pizzica le corde e la sua voce, anche se in modo così grezzo, agisce con la stessa spontaneità delle dita e in accordo con esse.

Vorrebbe aprire gli occhi, ma allo stesso tempo sa che rovinerebbe la magia che si sta creando attorno a lui. E non solo metaforicamente.

La magia gli sfiora la pelle e i nervi, rendendolo quasi febbrile, mentre ondeggia pigramente nell'aria, nel suo stato più puro. Lo avvolge in cerchi ora più grandi e ora più piccoli, che ondeggiano e sembrano quasi un'allucinazione tanto sono eterei e poco definiti.
È la cosa più vicina a quello che gli umani chiamano la "pace dei sensi".

Ed è allora che la magia, stranamente, si strotola e vaga più lontano, per tornare indietro con la notizia che dei bimbi lo stanno osservando, seminascosti.

Allora Giordano abbozza un sorriso, continua a suonare ma smette di canticchiare per declamare a gran voce: <Uscite da lì dietro e venite qua a ballare, la musica deve essere gioia. E mi fa piacere condividere la mia arte con chi la sa apprezzare.>

È una mezza bugia, voleva che fosse un momento per se stesso, ma se c'è un suo punto debole sono i bambini.
Chissà perché, odia gli atteggiamenti infantili (anche se insieme lo divertono) dei suoi fratelli.

I bambini, curiosi o capricciosi o piagnoni o irreverenti che siano, in un modo o nell'altro gli arrivano dritto al cuore e allora gli accoglie come se fossero... come se fossero se stesso.

All'inizio i tre bambini (la magia si è gentilmente degnata di essere più precisa) sono incerti, ma dopo che riprende a canticchiare a bocca chiusa e fa come se non ci fossero, i bambini piano piano si avvicinano a dove sta lui.

E in fretta si mettono a ballare tra risolini e battiti di mani, seguendo il tempo che Giordano crea.
E il calabrese lascia far loro tutto il baccano del mondo mentre avrebbe voluto solo un po' di pace, perché chi è lui per togliere la gioia e la curiosità dai bimbi, in un momento di pace?




N/A: è un capitolo molto semplice, però mi piaceva l'idea di Vincenzo stile "odio i miei fratelli quando fanno i bambini" e quando c'è un bimbo è tipo "ciao creaturina ciccina piccina anche se mi scassi l'anima".

Sarà anche perché ieri e oggi ho fatto una supplenza ad una scuola elementare.
E ieri le premesse erano queste:

E ieri le premesse erano queste:

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(Se non conoscete la canzone male male)

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(Se non conoscete la canzone male male)

Non mi fiderei di me stessa a fare da maestra.
E niente, alla prossima!

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