II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 1

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Tenta di raccapezzarsi come può, rintronato da quel mormorio lugubre e incessante, perché mai gli è capitato di trovarsi in una situazione del genere. Di vedere il corpo e non il fantasma, al limite. Mai il contrario, però, mai così.

A piedi nudi, silenzioso, si avvicina all'angolo che continua a calamitarlo; non sa se la pelle d'oca che gli scorre sulle braccia e sulla nuca sia una semplice reazione al freddo o un sintomo della sua maledizione, al pari dell'emicrania che inizia ad agitarsi in fondo al cranio, a stento sopita. 

Fissa fino a farsi dolere gli occhi la carta da parati di un verde-blu tenue, innocua e immobile nelle sue ripetute decorazioni floreali.

Il sussurro si ripete: gli sembra appena più forte, lì vicino al muro.

Getta fuori aria dalla bocca, un refolo controllato, in cerca di una calma che non gli riesce di catturare, coi palmi viscidi di sudore che si ritrova; trattiene il vizio di agitare le mani e si obbliga a premerle contro le cosce, le ancora alla flanella del pigiama.

Inclina il collo, scocca un'occhiata alla finestra per sbirciare oltre gli scuri, ma la sottile lama di vicolo illuminato che scorge è deserta, animata solo dai fugaci brillii umidi della recente pioggia.

Si accosta cauto al muro, quasi potesse scottarlo, per poi premervi contro i palmi e infine un orecchio. Chiude gli occhi, escludendo ogni altro senso che non sia l'udito e l'impressione, forse illusoria, di poter avvertire chissà quale vibrazione ignota tramite il tatto.

La voce si ripete ancora, ossessiva, monocorde come quella di tutti gli spettri che è condannato a vedere; ma non stavolta, a quanto pare. Le parole sono ancora fumose, ma la cadenza gli pare ora più chiara, decifrabile.

È una frase gridata, quella, sebbene ovattata dalla morte. Ne ha udite abbastanza per saper cogliere la differenza. Una frase singola. Una brevissima pausa, poi altre parole pronunciate in fretta, con foga. Dopo un paio di ascolti, intuisce che l'ultima parte si ripeta, per cadenza, la seconda volta con più intensità. Poi, gli suggerisce l'istinto, è una voce di donna, troppo acuta per appartenere a un uomo, anche nell'abisso della morte.

Ricciardi si stacca dal muro. È esausto, pur senza aver compiuto alcuno sforzo fisico. Su un lato della testa inizia ad arrampicarsi l'emicrania coi suoi viticci dolenti e porta una mano a premersi le palpebre, con tanta forza che gli esplodono scintille sulle retine.

Qualcos'altro di altrettanto spiacevole si fa largo tra i suoi pensieri: scaccia la vigliacca urgenza di rifuggire quel fantasma e rimanere insonne. Di certo, non scoprirà null'altro sulla voce finché se ne sta piantato lì.

Infila un paio di pantofole, la vestaglia pesante, ed esce dalla camera premurandosi di non far rumore. Nel buio della casa, si sente egli stesso un fantasma, illuminato appena dalla luce fioca che filtra dai lampioni in strada.

La voce, là fuori, è poco più di un sibilo fievole e, a non averla ascoltata per minuti interi, non saprebbe nemmeno dire che esiste; da quanto lo sta chiamando? Potrebbe benissimo non essersene accorto finora. È più sonoro il respiro profondo di Nelide che dorme, nel silenzio assoluto rotto solo dai suoi passi felpati quando passa davanti alla sua camera.

Non vuole svegliarla e dover dare spiegazioni, tanto più a una donna pragmatica come lei, pur ormai avvezza alle sue tante stranezze.

A tentoni, trova le chiavi nel piatto sulla madia dell'ingresso. Cerca di non farle tintinnare e, pochi secondi dopo, si ritrova a scendere nel buio liquido della tromba delle scale.

Con solo il tenue chiarore che s'insinua all'interno dal portone chiuso, scende un gradino alla volta, facendo scorrere una mano sulla balaustra a sorreggersi e guidare ogni suo passo che pare sprofondare in un abisso vuoto, prima di trovare l'appoggio successivo.

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