I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 1

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Ricciardi ignora a bella posta il suo tono affatto consono a una telefonata di lavoro.

«All'Arenella, per il nostro morto del giorno.»

«Allora, vengo di corsa.»

«Puoi camminare, non credo che il morto ci scappi.»

«No, ma volevo farmi un giretto all'ospedale nuovo. Non ci ho ancora dato un occhio; voglio proprio vederla, questa "opera magna" fascista...»

«Modo,» lo ammonisce soltanto lui, le pupille che scattano fulminee per la stanza vuota.

Incrocia solo lo sguardo severo del Re e del Duce dipinti su tela nei quadri davanti a lui, da soli abbastanza insistenti da instillargli disagio. Si sente sempre osservato, in quell'ufficio, e Bruno dovrebbe misurare le parole quando sono al telefono su una linea della polizia.

«Ero serio, stavolta,» sbuffa il medico, con una scarica di statico che non lo rende credibile. «Ogni tanto lo sono.»

«Spicciati.»

«Mi spiccio, mi spiccio, non t'agita–»

Ricciardi attacca senza lasciarlo finire, con un sorriso che gli sfugge.

Si rassetta il completo antracite e la cravatta, con i gesti consumati di chi è stato abituato a mostrar decoro in ogni circostanza, fosse anche la scena di un delitto. Poi, infila il soprabito grigio, forse troppo leggero per il clima ancora invernale e attraversa i corridoi della Questura.

Lancia qualche cenno di saluto ai vari colleghi che incrocia; quelli almeno, che non fingono di non vederlo. L'ispettore De Blasio caracolla lesto oltre la porta di un ufficio non appena lo vede svoltare l'angolo, e Ricciardi non manca di rifilargli un sonoro "buongiorno" in coda alla ritirata, tanto per ribadire la propria fama di iettatore.

Vedere un nobile cilentano servire nella Regia Polizia continua a causare un pacato scompiglio e una sommessa vena di diffidenza, anche dopo quasi dieci anni a Napoli e più di cinque nelle vesti di commissario.

Arriva nel chiostro interno con le mani affondate nelle tasche del soprabito, accolto da una folata d'aria gelida che gli sfiora il volto: fa ancora abbastanza freddo da intirizzirgli le dita e arrossargli il naso. Si risistema la sottile ciocca di capelli che gli ricade sempre sulla fronte; un po' per vezzo, un po' per sua stessa natura indomabile, un po' per indefessa insolenza.

Maione lo affianca non appena lo vede e si avvicina con lui a Camarda, in attesa di fronte all'automobile parcheggiata nel piazzale. L'agente gli rivolge un saluto fin troppo entusiasta, con tanto di schiocco di tacchi, ma, all'occhiata arcigna del brigadiere, lascia ricadere di scatto il braccio destro teso, per poi farsi da parte dopo un più semplice, affrettato saluto militare. 

Ricciardi non risponde a nessuno dei due, se non con un lieve cenno del capo, le mani ancora piantate in tasca: ne fa un punto di principio, d'evitare ogni saluto di prammatica. Maione sospira nel guardare l'agente allontanarsi, poi si mette alla guida dell'Alfa Romeo nera.

Mentre il collega si sistema al volante, Ricciardi apre la portiera e volge per un attimo lo sguardo in alto, verso il quadrato di cielo azzurro racchiuso nella cornice grigiastra degli edifici. Strizza appena gli occhi quando il sole fa capolino oltre la linea del cornicione, abbagliandolo in un guizzo di luce. Per un attimo, gli sembra una mattinata come tante, lì a Napoli.

Poi, sale al posto del passeggero e il cerchio alla testa si fa più stringente. Gli ricorda l'incontro con quel nuovo morto ormai dietro l'angolo, e che per lui non esistono mattinate normali.

 Gli ricorda l'incontro con quel nuovo morto ormai dietro l'angolo, e che per lui non esistono mattinate normali

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La Ruota degli AngeliWhere stories live. Discover now