CAPITOLO 48

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KEIRA

Dodici anni prima...

Gli stavo seduta accanto con lo sguardo fisso fuori dal finestrino tentando di non pensare a ciò che da lì a poco avrei visto, tremavo seduta su quel sedile di una macchina che mi ricordava così tanto che desideravo di dimenticare tutto, ma era così tanto che non ci riuscivo. Mi tremava il cuore, fremeva così tanto che alcuni pezzi cadevano a terra disperdendosi.

Accanto a me c'era suo fratello che guidava teso probabilmente quanto me, con le mani ferme sul volante, attente alla guida come il suo sguardo che non si era spostato dalla strada neppure per un momento. Il tragitto sembrava non finire mai, ma al tempo stesso ogni chilometro che stavamo facendo desideravo che durasse secoli così da allontanarmi il più possibile da quel momento che avevo temuto per così tanto da non essere sicura che fosse la cosa giusta.
Ma dovevo, lo dovevo a me stessa, lo dovevo al bambino che portavo in grembo e per quanto lo odiassi a morte, con tutta me stessa, lo dovevo anche a lui. Quel mostro era il padre di mio figlio, ma meritava di sapere. Meritava di odiarsi per ciò che aveva perso, per cosa ancora non mi era chiaro ma non volevo saperlo, non sarei riuscita a sopportarlo.

Mi torturavo le mani intrecciate sul grembo agitata dall'ansia che mi scorreva in corpo, stavamo andando da lui, da lì a poco lo avrei rivisto, dire che stavo male era un eufemismo, ero completamente prosciugata da qualunque cosa. A stento mi reggevo in piedi in quel periodo, non ero io, ma chi ero io? Arrivai a domandarmi. Cosa ne era rimasto di me?

In lontananza ecco che intravidi il penitenziario, il carcere dove era rinchiuso ormai da settimane, le settimane che erano passate dalla morte di mio fratello, un tempo fin troppo breve per me, che ancora ne accusavo i colpi.

La mano del ragazzo alla guida a fianco a me si posò sulle mie che si fermarono, smettendo di torturarsi a vicenda. Fu il primo contatto che mi donò dopo tutto un tragitto che era durato ore, voltai lo sguardo su di lui e per quanto gli riuscisse difficile, mi sorrise tentando di comprendere il mio dolore. Ma nessuno avrebbe potuto capire come mi sentivo in quel momento.

<<Andrà tutto bene.>> Tentò di calmarmi ma neppure lui riusciva a credere alle sue stesse parole, era troppo difficile per entrambi tentare di mantenere il controllo, quando non avevamo neanche l'idea di ciò che ci attendeva. Di chi ci stava aspettando.

Lui e Stefany erano state le uniche due persone che mi erano state accanto, insieme a mio nonno, dopo quella notizia che sarebbe dovuta rimanere segreta ma che avevo sentito il bisogno di confidare a loro, per trovare un appoggio che non avevano esitato a darmi. Loro erano rimaste le uniche persone che mi rimanevano e pensare che proprio il fratello dell'assassino di mio fratello fosse colui con cui mi ero confidata, mi metteva i brividi. Ma Alexei non c'entrava, non era come quel mostro.

Svoltò addentrandosi nel parcheggio posto di fronte a quel luogo tetro che mi faceva gelare il sangue nelle vene, la gente che vi era mi metteva i brividi, ma più di tutti, temevo colui che ci attendeva o meglio che ancora era ignaro del nostro arrivo.

Scendemmo dalla macchina e lasciai che Alexei mi facesse strada verso quel manicomio di assassini, ad ogni passo divenivo sempre più incerta, ogni centimetro mi istigava a scappare, ogni secondo in più mi soffocava, ma non arretrai, nè demordeii. Dovevo farlo.

Una volta entrati le guardie ci perquisirono come da prassi e poi uno dei secondini ci fece strada lungo un corridoio che mi parve infinito, dalle pareti scure e gelide, che mi opprimevano ma mai quanto lo stavano già facendo i miei pensieri. Mi pareva di impazzire e quel momento che nella mia testa avevo già vissuto, per la prima volta lo riuscii a sentire sulla pelle. Era tutto reale, stava per accadere, lo stavo per rivedere.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 22, 2023 ⏰

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