Tico

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B. se ne stava in camera, da sola. Il tepore delle coperte lasciava appena intuire il respiro degli altri, nelle altre stanze. Tutti dormivano, mentre tutto il mondo rimaneva fuori.

Tutto il mondo tranne Tico.

Tico picchiettò tre volte al vetro, con fare un po' insistente, e per quanto il suo becco volesse essere dolce, il rumore scosse la tranquillità della camera. Aveva fatto più tardi del solito quella sera. B. si agitò un po', facendo silenziose smorfie con le braccia, come a dire: finiscila che svegli tutti! Come se Tico potesse capire. Le maniche del maglione di lana sembravano danzare insieme a quei gesti. Poi, sbuffando, smosse le coperte e si alzò dal letto, andando con passo veloce verso la finestra, cercando con le mani di impedire all'aria più fresca di insinuarsi tra la pelle.

Accese l'abat-jour e raccolse dalla scrivania un biglietto, lo arrotolò e lo chiuse con un piccolo pezzo di spago rosso. Poi aprì la finestra, dette una carezza a Tico, gli strinse leggermente al collo lo spago a cui era legato il biglietto, con un nodo robusto, ma ugualmente comodo, e gli fece cenno di andare. Tico, come se conoscesse da sempre quelle movenze, si girò e prese il volo. B. non sapeva da dove proveniva e nemmeno dove sarebbe andato. Ma ogni sera Tico passava a trovarla.

B. richiuse la finestra, ma solo dopo aver versato un po' di acqua fresca nel piattino di argilla grezza, insieme a qualche seme nella piccola ciotola smaltata di blu. Il piattino lo aveva realizzato lei qualche mese prima, quando le era presa la fissa di lavorare l'argilla. Si era iscritta a un corso con tutta l'intenzione di creare vasi, piatti e chissà cos'altro e tutto ciò che era riuscita a riportare a casa era quel piattino. La bellissima e sbreccatissima ciotola blu, invece, proveniva da una vacanza in Giordania. Il suo destino era stato quello di diventare la mangiatoia di Tico. Non che Tico avesse bisogno di sostentamento, ma gradiva ugualmente il menù della casa.

B. indugiò giusto qualche secondo osservando il proprio respiro trasformarsi in nebbia, velando per pochi istanti il cielo stellato. Davanti alla sua casa stavano già montando le luci di Natale e il silenzio della città ammantava tutto il centro storico di autentica magia. B. sorrise, chiuse la finestra e con le mani raccolse i suoi capelli neri in una crocchia improvvisata. 

Prima di tornare al caldo del letto spense la piccola abat-jour  che vegliava sulla scrivania e si immerse nella lettura di un libro. Arricciava sempre gli angoli delle pagine, per tenere il segno. Gli integralisti avrebbero potuto dire che questo corrispondeva a trattare  male un libro, ma la realtà era che non c'era proprio niente che B. amasse di più oltre a leggere e a viaggiare. La luce tenue della piantana che si accostava al letto illuminava la parete verde oliva, arrivando appena a toccare il soffitto a cassettoni, cristallizzando quella manciata di attimi prima di dormire nel tempo.

B. era nata in un piccolo paese di provincia, di quelli in cui c'è fin troppa gente per  pensare di conoscersi tutti, ma dove al tempo stesso tutti sono sempre ansiosi di conoscere i cazzi degli altri. Un luogo magnifico, dove la natura aveva scelto di porre il suo sigillo, e al tempo stesso il luogo perfetto da cui scappare per conoscere il mondo. 

B. lo vedeva un po' come si guardano le palle di vetro da collezione: un bellissimo posto che stupisce ogni volta che cade la neve, ma troppo piccolo per contenere i suoi sogni. Per questo in passato era già scappata un paio di volte. A Londra, a Roma. E poi a B. piaceva l'estate e le carezze violente del sole estivo sulla pelle.

Tico, invece, era un piccolo rapace. Forse un falchetto, lei non avrebbe saputo dirlo con precisione. Aveva chiesto anche al suo amico, Duccio, che insegnava matematica e scienze alle scuole medie, ma che in realtà era laureato in scienze naturali (più altre tre o quattromila lauree e master). Il problema era che Duccio era specializzato in invertebrati e alla sua richiesta su whatsapp con una foto sfuocata aveva saputo rispondere solo "Una poiana. O un nibbio. O un falchetto. Boh.". Quindi per B. Tico era un falchetto. Del resto volava anche di notte e questo a lei bastava per rendere l'equazione esatta.

Lo aveva addomesticato piano piano, con rispetto e circospezione. Lo aveva prima osservato per giorni, sostare sulla grondaia vicino alla sua finestra, dove si affacciava spesso la sera a fumare una Winston light. Una sera aveva messo fuori la piccola ciotola smaltata di blu, con un po' di semi e frutta secca a caso. Che ne so di cosa mangia un falchetto, si era detta. Poi si era ritratta, in disparte, lentamente. E lui, sorprendentemente, aveva accettato l'offerta. Ogni sera proveniva da chissà dove, sorvolava i tetti del centro e indugiava davanti alla sua finestra. Con il tempo aveva imparato a picchiettare sulla finestra, per salutarla e ricevere le coccole. E con le carezze, un biglietto.

Aveva un becco affilato e giallo, il piumaggio soffice, che variava dal marrone scuro al grigio, striandosi saltuariamente di nero pece. Quel nero che sotto i raggi del sole luccicava, quasi abbagliando.

Fidati di meWhere stories live. Discover now