L'indomani

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La ragazza sedeva su quella panchina sin dalle prime luci del mattino.

I passanti le volgevano sguardi rapidi e curiosi, subito distratti ed allarmati da un accavallarsi di concitati richiami.

Era uno di quei soliti, afosi pomeriggi di fine agosto e, sebbene il sole si fosse arreso dietro un inaccessibile cumulo di nubi, dense e nere, la temperatura restava a livelli tali da sconsigliare, alla più comune logica, l'idea di perseverare nella solita routine di vita da formiche di città, operose, previdenti, appena infelici e così poco inclini a gustare la vita.

Quel pomeriggio, il parco era pieno di genitori riuniti in capannelli garbati presso le panchine più all'ombra, in cerca dell'illusione della frescura, lieti di potersi lamentare tra loro della medesima cosa, il caldo, senza che alcuno avanzasse la minima eccezione.

Nugoli di bambini, sudati ed inzaccherati, vociavano prepotentemente ovunque e correvano e si arruffavano, sfiorandosi e sfidandosi per gioco mentre la ciarla degli zampilli d'acqua della fontana regnava su tutto.

D'un tratto, dei bambini, uno dopo l'altro, si avvicinarono alla ragazza della panchina.

Lei non badava a nulla e rimaneva immobile.

Lo sguardo puntava qualcosa d'invisibile che saccheggiava ogni emozione dal viso. Solo, all'angolo della bocca, s'intravedeva l'ombra di una piega, anche se era difficile indovinarne la natura.

I lineamenti del volto non erano regolari ma la pelle candida e i lunghi capelli, neri e scarmigliati, le conferivano un'aria al contempo aspra e dolce.

Indossava un abitino colorato, a fiorellini.

I bambini la fissarono per un po', senza osare fiatare, quasi in rispettosa adorazione.

Sin quando qualcuno cominciò a parlottare. Cenni e occhiate divennero più palesi e man mano più sfacciati.

Una bimba, con una grossa treccia e due occhi enormi, pieni di apprensione, le si avvicinò sino a sfiorarle i capelli e a sussurrarle una domanda.

- Dove sono le tue scarpe? - le chiese, con una vocina pigolante.

La ragazza non riuscì a scuotersi, se non dopo una manciata di secondi, lunghi e lenti.

Si guardò i piedi. Era scalza. Spalancò gli occhi. Non ricordava il perché!

Si alzò di scatto, continuando a guardare quei piedi nudi come per la prima volta. Non ricordava nulla!

Alcuni piccioni si librarono in volo, pavidi e chiassosi.

Per quanto si sforzasse, non ricordava più il proprio nome. Con lo sguardo, cercò l'uscita.

I bambini si annoiarono in fretta di quel mutismo che non comprendevano e ritornarono ai loro svaghi.

Il cancello era giusto a pochi passi da lei. Una distanza incolmabile. Dove andare?

Passo dopo passo, una certezza si fece strada nella sua mente... Non le importava sapere. Niente.

Era arrivata al cancello.

Turbata dalla serena follia in cui s'inoltrava, raccolse lo zainetto al suo fianco, che scoprì contenere delle bottigliette d'acqua e degli snack già iniziati, ed uscì dal parco.

Vagò dentro un'allucinazione costruita fra un labirinto di strade affatto familiari e del tutto deserte.

Un paio di cani randagi le scodinzolarono appresso per qualche metro poi, annusando l'aria con diffidenza e premura, si avvicinarono ai resti di un gelato mezzo sciolto, proprio sotto il marciapiede, lasciandola sola.

La ragazza vagò. Attraversò la città per intero.

Seguendo un impulso, fuggì da quel posto coperto da un lenzuolo di noia, impalpabile ed opprimente quanto l'afa.

Percorse chilometri di strada in salita. Camminò per ore.

Se guardava i piedi, li vedeva anneriti e graffiati e lividi ma non sentiva proprio alcuna stanchezza.

Fu così che, svicolando per una stradina sterrata, arrivò ad una radura sulla collina che dominava la città.

Si sedette a terra, sotto un grande ulivo.

Chiuse gli occhi e si appoggiò al vecchio tronco. Serenità ed armonia scivolarono, con semplicità, dal tronco alla schiena come a trafiggerla in un'estasi tanto pura quanto effimera.

Era sera.

Non doveva essere tardi ma il cielo, sempre coperto, era già un'unica cosa con gli oscuri rilievi alle sue spalle, mentre una chiazza appena più chiara testimoniava che, proprio lì, si celava la luna.

Guardò in basso e vide la città rifulgere di piccole e piccole luci come lucciole in procinto d'inaugurare i loro riti.

Per un attimo, trattenne il fiato e corrugò la fronte come a voler afferrare un pensiero che, però, le sfuggì.

Sospirò piano e respirò, con l'ulivo.

L'odore della notte avanzava e non pareva di un mondo umano la pace che penetrava nei pori.

Avviluppata da ombre, protettive come braccia materne, scivolò in uno stato di placido torpore.

Distinse una sorta di ipnotico tintinnio Cos'era mai? Non voleva addormentarsi senza scoprire

l'origine del suono che la cullava...

Si addormentò seduta. Abbandonata contro l'ulivo, il capo reclinato da un lato.

Lentamente, i rami dell'ulivo cominciarono a frusciare.

Fu il vento a tessere ragnatele e ad inventare ghirigori tra quei rami. E, di fruscio in fruscio, fu una fronda più bassa a sfiorare il viso della ragazza in una carezza.

Lei sognò.

Prima delle rugiade biancheWhere stories live. Discover now