. 25. Ad un passo dalla libertà

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La notte era giunta di nuovo, perfida, col suo carico pesante di malinconia e solitudine.
Eìos aveva percepito il suo arrivo dal cambiamento del profumo del mare che saliva come vapore dalle acque che contornavano la fortezza, fino al torrione in cui era rinchiuso; esso entrava attraverso la grata del finestrino, addensandosi umido sul soffitto, per poi calare verso il pavimento in infinite, quasi impercettibili, gocce nebulizzate. Aveva sempre considerato uno strano fenomeno, intrigante come ogni aspetto della natura, il passaggio da un profumo all'altro dell'oceano: da quello intenso e promettente, acuto ed energico del primo mattino, a quello placido, onirico e tranquillizzante della sera.
Ma tanto nel primo, quanto nel secondo, v'era impressa una nota fortissima e distinta di indipendenza, di spazio infinito, di respiro universale, che adesso, compresso in quella cella buia, sfumava, disperdendosi e lasciando di sé solo il sentore malinconico di libertà lontana e irraggiungibile.
Si sdraiò sul fianco, il braccio destro piegato sotto la testa, gli occhi appesantiti per la stanchezza, tuffandosi nel ricordo della sua donna, morbida e profumata, imprigionata nella gabbia delle proprie braccia. Dietro le palpebre, comparvero, come nella scena di un dipinto, la luce tenera degli occhi, tersi e profondi, come smisurati cieli di primavera, e il profumo saporito delle labbra, come petali conditi di miele. E poi, in una successione travolgente, seguirono i fianchi di pane fragrante, le dita di zucchero e la pelle come crema di latte. Nella propria mente, ogni altro pensiero si fece da parte, si annullò per far posto alle immagini di lei. Lo stomaco si riempì di una voragine rimbombante ed egli comprese che ogni cosa di Ariela gli provocava fame, una fame di carne e pelle, di pensieri e respiri. Comprese che ciò che lo riempiva era amore, passione e ossessione insieme; trasalimento ed eccitazione; un rapimento della carne e dell'anima che lo immergeva in uno stato di felicità quasi doloroso, tanto era potente e totalizzante. Ciò che provava, per la prima volta, gli faceva sentire il proprio cuore pulsante e vivo, delirante e frastornato, preda volontaria della sua stessa follia.
Si sorprese a desiderarla, impregnata dei suoi baci umidi; i muscoli si tesero in uno spasmo di desiderio lancinante, come mai prima, tanto da sentire il petto riempirsi di spine e aprirsi, lasciando il cuore indifeso e solo sotto il peso della mancanza di lei.
Si raggomitolò, portando le ginocchia al petto e il braccio libero a cingerle, come si fa per contenere il dolore di una parte del corpo ferita, e morse il labbro inferiore, tumefatto e livido, nella speranza delirante che un male sopraffacesse l'altro. La ferita si spaccò; siero e sangue fuoriuscirono in uno schizzo fiammante, come un chicco d'uva spremuto nel palmo della mano. Un rivolo caldo grondò nel vuoto ed egli accettò, nell'istante esatto, in cui esso scaldò la pelle dell'avambraccio, che nessun dolore, né del corpo, né dell'anima, sarebbe mai stato più forte di quello che la mancanza di lei gli scavava dentro.
Dal fondo del corridoio, malamente illuminato dalla luce fievole delle torce, una voce, sempre più vicina, biascicava una vecchia canzone da osteria. Era roca, poco intonata e impastata di alcool e masticava le ultime sillabe di ogni strofa. Persisteva nell'eco di quel cunicolo dalle pareti di pietra, moltiplicandosi e infierendo nelle orecchie, tanto che i detenuti, nell'ombra delle rispettive celle, presero a lagnarsi rumorosamente.
- Sta' zitto! - piagnucolò uno esasperato.
- Chiudi quella fogna! - gridò un altro, battendo la ciotola vuota contro le sbarre.
Ma l'uomo continuava imperterrito e quasi divertito nella sua esibizione sgradevole, tanto che una guardia, spingendolo in malo modo nella cella che precedeva quella di Eìos, gli intimò di farla finita o gli avrebbe chiuso la bocca col calcio del fucile.
L'uomo smise di gracchiare, come se all'improvviso si fosse svuotato di tutte le fastidiose energie, mugugnando qualcosa di incomprensibile.
Eìos si sentì sollevato per quel ritrovato silenzio, sciolse la posizione fetale che aveva assunto e si distese supino, sgranchendo i muscoli delle braccia e delle gambe, a lungo sacrificati.
Poi si mise a sedere sul tavolaccio, si chinò in avanti, per afferrare la ciotola con l'acqua, e fece per bere. Il labbro pulsò, come se un martello lo colpisse reiteratamente; gocce di sangue si mescolarono all'acqua ed egli imprecò ad alta voce, per il dolore che sembrava diramarsi per tutto il cranio.
- Fa male? - chiese la voce dalla cella accanto, pulita, limpida, senza quella nota stravolta dalla sbronza, - Tua moglie ... dice che hai un labbro gonfio e tumefatto. - continuò, facendosi sempre più chiara e riconoscibile.
- Betel? - mormorò incredulo, saltando in piedi e avvicinandosi alle sbarre.
- Per servirvi, signore ... - scherzò, accomodandosi sul pavimento, accanto all'inferriata.
- Che diavolo ci fai qui dentro? - insistette, con le mani strette sulle sbarre, e il naso sacrificato nello spazio tra l'una e l'altra.
- Faccio quello che faccio sempre: ti tiro fuori dai guai! - rispose l'amico ovvio.
Eìos sorrise, strizzando gli occhi per il bruciore e, poggiate le spalle al muro, si fece scivolare fino al suolo, la tempia sulle sbarre, le gambe distese e accavallate una sull'altra, solo uno spesso muro di pietra a separare le loro schiene.
- Dunque, saresti tu "la stella che ricongiungerà i nostri cammini"? - citò la frase di Ariela, alla quale non aveva dato peso quella mattina, ma che in quelle circostanze diveniva perfettamente comprensibile.
- Non l'avevi ancora capito? Ah, l'amore! Ottunde i sensi e annacqua il cervello ... - ironizzò, con una risatina sommessa. - Tua moglie è stata così sibillina, da non far comprendere neanche a te le nostre intenzioni. -
- Mia moglie è intelligente, dolce e forte, sensibile e calda ... ed è bellissima! - replicò, socchiudendo gli occhi, come se stesse confessando direttamente a lei i suoi pensieri.
- Fermati qui, Romeo! Non vorrei che scendessimo troppo nei particolari ... - lo punzecchiò, sorridendo per il trasporto che l'amico aveva per la sua sposa. - Comunque, la ho veduta e ... te ne do atto: in fatto di donne sei fortunato! - aggiunse, fattosi serio.
- Sono fortunato, sì ... anche in fatto di amici. - replicò.
Sapeva da sempre che Betel avrebbe dato la propria vita per lui e non solo per il debito che aveva. La loro era divenuta col tempo, amicizia pura, senza sbavature: sincerità reciproca, sostegno incontaminato, ironia dei difetti, esaltazione dei vanti. Erano il completamento l'uno dell'altro ed Eìos ne aveva avuto l'ennesima prova.
- Come faremo? - mormorò, socchiudendo gli occhi stanchi e infiammati e abbandonandosi alla confortante certezza di non essere più solo.
- Non dartene pena adesso, è già tutto pianificato ... Riposati, piuttosto, presto ci sarà da correre! - gli suggerì, la voce bassa perché solo l'amico potesse udirla.
Eìos sospirò, aprì gli occhi, rivolgendoli alla scacchiera che la luce fioca della luna, formava con la grata del finestrino: bagliori di piccole, lontanissime stelle baluginavano, come guardiani che dal cielo sorvegliano l'operato degli uomini, e, pur senza scorgerla in quello squarcio piccolissimo, si affidò ad una sola di esse, una tra le più luminose della volta celeste.

In nome del sangue, in nome dell'amoreWhere stories live. Discover now