«Sei silenziosa,» mi risveglia la mia coinquilina, Hurricane.

Camminiamo fianco a fianco, per i corridoi di Yale. Lei è diretta in biblioteca, io nell'aula M-01, dove mi aspettano i risultati dell'esame di matematica.

«Sono stanca,» correggo. È vero. Ho due occhiaie enormi, i capelli spettinati e non ricordo se mi sono tolta il pigiama prima di uscire dalla mia camera.

Qualche studente si volta al nostro passaggio. Le attenzioni si riversano su Hurricane, bella come il sole e sempre col sorriso. Lei le ignora, nonostante l'arrossamento delle sue gote sia piuttosto evidente.

«È il caso che ti rifaccia la domanda che non hai sentito o per oggi è meglio lasciar stare?»

Hurricane è carina e gentile. Ma tra di noi non è mai scoccata quella scintilla che fa partire un'amicizia profonda e indimenticabile. Almeno, non da parte mia. La cosa mi mette a disagio, perché so che lei mi ritiene una vera amica. Però io... non mi ci vedo tanto con lei. Non si è mai accorta che il nostro rapporto va in una sola direzione: lei parla, parla, parla dei suoi problemi e delle sue cose, ma non chiede mai cosa succede nella mia vita. La cosa che più mi ferisce è che lo fa perché è convinta che io non abbia nulla da raccontare. D'altronde, esco poco e non ho ancora legato con nessuno.

Vorrei davvero non sembrare il cliché ambulante della ragazza riservata, che sta da sola e preferisce i libri alle interazioni sociali. Perché non lo sono. O, almeno, a me piace stare sola. Non soffro la solitudine. Sono solo incapace ad aprirmi con gli altri. Ho la convinzione di non avere nulla di interessante da dire, niente che possa far desiderare a una persona di voler continuare una conversazione con me.

Sono capace di restare in silenzio, muta come un pesce, in un gruppo di coetanei, per paura che quello che dico venga interrotto da una figura più estroversa. È come se la mia voce fosse molto più bassa di quella degli altri, e io non trovassi mai persone disposte ad avvicinare l'orecchio per ascoltare cosa ho da dire. O persone che mi invoglino a sollevare il tono per farmi sentire.

«Certo, ripeti.»

«Ti chiedevo se avessi qualche informazione da darmi su Ares Lively, il nostro vicino di stanza.»

A sentire quel nome, per poco non inciampo sui miei stessi piedi. Fingo di sistemarmi i capelli. «Ares? Che tipo di informazioni? Come mai? Cosa ti interessa sapere?»

Hurricane si stringe nelle spalle, ma capisco che è solo un modo per nascondere quanto le importi. «È davvero carino. E quando ci hai presentati, sembrava pensare lo stesso di me.»

Oh, lo pensava eccome. Glielo si leggeva in faccia. E la pozza di bava ai suoi piedi era inequivocabile. «Mh.»

«Avete parlato qualche volta, vero? Sai qual è il suo tipo? Se potrei piacergli?» insiste.

Le poso una mano sulla spalla e ci fermiamo. Le nostre strade stanno per separarsi. Lei deve andare a destra, verso la rampa di scale e io devo proseguire dritta. «Hurri, potrà pure essere carino, ma non mi sembra adatto a te.»

Ed è vero. Per il poco che conosco di Ares, Hurricane è il suo opposto. Lei è delicata, sempre composta e gentile. Ed è vergine, perché aspetta di farlo con un ragazzo che ama davvero e che la tratti come merita. Considerando che la sua famiglia è estremamente cattolica, non escluderei la possibilità che abbia fatto voto di castità fino al matrimonio. Ares pare più il tipo che lo farebbe anche dentro una chiesa.

La sua espressione si scioglie. Gli occhi azzurri si fanno carichi di emozione e le sue mani piccole e lisce afferrano le mie, screpolate dal freddo e arrossate sulle nocche. «Hel, ti prego. Sei l'unica persona, al di fuori dei fratelli e cugini, che ho visto parlare con lui.»

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