4 MAGGIO

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Ogni tanto la vita fa cose strane, ti da tutto quello che desideri e poi, d'improvviso, se lo porta via. È da due mesi che sono solo, molto solo.

Capisci di aver avuto compagnia solo quando nessuno è più vicino a te. Qui, nella mia vita, vuoto, tanto vuoto. Quello che ti lascia in balia delle onde, la tempesta che ti squarcia le vele delle piccola barchetta che provi a dirigere nel mezzo di un mare burrascoso.

È maggio. Si sta bene fuori casa, a passeggiare sotto gli alberi fioriti, per poi andare in qualche giardino pubblico ad ammirare la natura circostante. Io vago, vago come ho sempre fatto, ma sto ben attento ad evitare quel condominio.

Non so neanche se lei sia ancora viva in questo momento. Se fosse rimasta in vita, sarebbe venuta a cercarmi. Perché non lo fa? Perché non è tornata da me? Sarà finita sotto un cipresso, come Kisaki, o meglio, la persona che voleva ucciderla.

La morte di Fujiwara è solo colpa mia. Non mi sono accorto che quello che definivo amico stava distruggendo tutto quello che avevo, sotto i miei occhi, senza che io lo fermassi, perché in lui avevo fiducia. Ne avevo, tanta.

Lei non c'è. E non ci sarà mai più una come lei.
Nonostante la sua apparenza, il suo fare da stronza, la sua disarmante freddezza, lei ci teneva veramente a quello che era riuscita a costruire. L'ho visto solo quando era troppo tardi: quando Kisaki ha premuto il grilletto.

Sono scappato, velocissimo, tirandomi dietro qualche membro della Toman. Fuggire è probabilmente l'unica cosa che sono in grado di fare.

Perché finisce sempre tutto male?

Mentre cammino senza meta per i vari vicoli e snodi di Tokyo, prendo una sigaretta e la accendo. Inspiro, espiro. Osservo la piccola nuvola di fumo semitrasparente danzare davanti alla mia faccia.

Da quel 22 febbraio ho cominciato a fumare molto più spesso del solito. Forse sono in un limbo di depressione, chi può dirlo.

Mi dispiace. Non volevo che tu morissi per causa mia.

Forse questa è la mia punizione da parte di qualche divinità o dell'universo stesso: non posso amare né essere amato. So di essere una brutta persona e di non aver mai fatto nulla per cambiare me stesso, nemmeno un'azione piccola piccola, non ci ho mai provato perché ero sicuro del fallimento.

"Essere amato", lo dico perché sono sicuro che lei mi amasse, almeno un pochino. Io ho amato lei come non ho mai amato nessuno.

Continuo a passeggiare, inspirando il fumo a pieni polmoni. Ormai è l'unica cosa che mi calma. Ogni tanto mi strofino gli occhi, assicurandomi di nascondere le lacrime che mi scivolano addosso.

Non essendo occupato a pestare gente, posso guardarmi intorno e osservare le persone che normalmente affollano le strade di Tokyo.
C'è chi è vestito in giacca e cravatta e va a passo di marcia per non fare tardi in ufficio, ci sono madri e padri con i loro figlioletti, e le coppie.

Le coppie innamorate, quelle che si prendono per mano, quelle che condividono una crêpe con panna e fragole, quelle che si scambiano un bacetto fugace in barba alla riservatezza tipica dei giapponesi.

Quanto vorrei che con me ci fosse Fujiwara. Quanto vorrei tenerle la mano, mangiare qualcosa con lei e baciarla, baciarla di nuovo, fino ad aver imparato a memoria la forma e il sapore delle sue labbra. Perché sono un caso così perso?

Accorgendomi che pian piano sta scendendo il sole, decido di tornare verso il mio minuscolo appartamento. Proseguendo per qualche viuzza poco illuminata, non mi rendo neanche conto di dove sto andando.

Avrei dovuto pensare meglio prima di inserire il pilota automatico e fare la solita strada. Lo dico perché nel mio "solito itinerario" c'è il viale che porta esattamente davanti al condominio di Fujiwara. Non ho voglia di girare i tacchi e fare retromarcia, il buio sta scendendo troppo velocemente.

L'unica cosa che mi viene in mente di fare è incollare lo sguardo a terra, senza mai rivolgere la testa verso l'alto. Non voglio vedere la sua porta di casa. Porta che nasconderà un appartamento privo di vita, forse già svuotato o venduto a qualcun altro.

Mentre passo davanti al muretto dove ci sedevamo sempre, illuminato dalla luce fioca del lampione sovrastante, sento un <<Hai una sigaretta?>>.

Per lo spavento e l'incredulità, faccio fatica a girarmi.

<<Che c'è, Shuji? Mi hai già dimenticata?>> mi chiede, la stessa voce, con lo stesso tono sornione di quando ci eravamo conosciuti mesi prima.

Non potrei mai dimenticarmi di te, Yuna.

<<Dimmelo se sei un qualche tipo di allucinazione>> è ciò che riesco a dire.

Perché non riuscirei a vederti sparire un'altra volta.

<<Girati e verifica tu stesso, è facile, no?>> ride. Dio, quanto mi era mancata la sua risata.

Butto la sigaretta a terra, spegnendola con un piede. Mi giro. Lei è lì: seduta sul muretto, con una felpa nera e dei jeans strappati sulle ginocchia. Non ha più i capelli viola, ora le radici sono castane e le punte di un giallo sbiadito. Sorride.

La abbraccio, stretta. La colgo alla sprovvista, considerando il piccolo "mh?" che le sfugge mentre le avvolgo le braccia attorno al corpo.
Lei è viva, è qui, davanti a me, non la sento sgretolarsi o svanire sotto le mie mani. Lei è ancora viva.

<<Scusami, cazzo, scusami per tutto>> mormoro. <<Non ho neanche notato che Kisaki stava tramando contro di te e contro la gang. Non sono riuscito a guardare oltre la punta del mio naso. Perdonami, Yuna>>.

Lei, gentilmente, ricambia piano l'abbraccio, portando le sue mani dietro la mia schiena. <<Lo sento che stai piangendo, Shuji>> lo dice con un tono quasi felice.

<<Ami così tanto il tuo posto da rischiare la morte, ma io non ti ho amato abbastanza da salvarti>> parlo senza pensarci, lo faccio di getto, non rendendomi conto di aver appena sganciato una mina.

<<Tu mi ami?>> mi chiede, facendo sprofondare il suo viso nella mia spalla.

Non dico nulla, mi limito ad annuire e a stringerla più forte a me. Intanto, mi preparo psicologicamente a venir allontanato, perché qualcosa mi dice che lei non senta quello che sento io.

<<Scusami>> ecco, ci siamo, <<Scusami per essere andata in giro a baciare altre persone. Era il mio metodo per non pensare a te. Ho avuto paura di dirti la verità>>.

Piano piano, l'abbraccio si scioglie. Rimaniamo a guardarci negli occhi, lei con le guance rosse e io con le lacrime che minacciano ancora una volta di scorrere sopra il mio viso.

<<È da quando ci siamo baciati per la prima volta che spero in una seconda, terza, quarta, infinita volta. Mi interessi dal primo momento in cui ci siamo visti, ma non ho mai avuto il coraggio di dirtelo>> mentre parla, mi guarda dritto negli occhi, peggiorando il mio già precario equilibrio.

<<Non farmi più questi scherzi>> sussurro, sapendo che, se parlassi un pochino più forte, la mia voce si romperebbe tra i singhiozzi.

Prima che lei possa aggiungere altro, le prendo il viso tra le mani e la bacio. È dolce, lento, uno di quei baci da film romantico quando i due protagonisti capiscono di essersi innamorati e, sullo sfondo, appaiono i fuochi d'artificio.

Per noi niente celebrazioni plateali, siamo due sopravvissuti: lei ad un colpo di pistola ed io al baratro in cui mi stavo trascinando. E a noi va bene così, va bene amarsi, va bene giurare di proteggere l'altro in qualunque caso, a qualunque costo, perché ho capito che amare vuol dire questo: sacrificare se stessi per la persona a cui vogliamo tanto, tanto bene.

Non appena lei si allontana un po' dalle mie labbra, sussurra un flebile <<Ti amo, Shuji>>.

<<Ti amo, Yuna>>

10 RAGAZZE | Hanma ShujiWhere stories live. Discover now