«E quella?», domandai. «La cicatrice, dico».

«Quando avevo undici anni sono stato al mare in vacanza per un'estate con gli zii. Mio cugino era più grande ed io gli stavo sempre attaccato, ero costantemente in mezzo alle palle e i suoi amici non mi volevano».

Mi fermai un momento, sorpresa, anche se non sconvolta. «Ti sei fatto picchiare?», domandai ridendo.

Lo udii ridacchiare e le spalle si mossero. «No, santo cielo, però facevano cose da grandi. Si tuffavano dagli scogli e volevo farlo anche io, così un giorno prendo coraggio e mi butto. Peccato che ci fossero delle rocce anche sotto, mi sono squarciato la gamba».

Sorrisi, ma non risposi, limitandomi a tracciare la linea della cicatrice sul disegno. Non volevo fargli i capelli al carboncino, così lo lasciai cadere sul pavimento e mi chinai a recuperare i colori.

Appoggiai i vasetti sul cassettone, domandandomi quali avrei usato. La luce nella stanza arrivava dalla finestra alle mie spalle, era grigiastra perché fuori pioveva e l'intero ambiente aveva un'aria molto alternativa alla Tumblr, sarebbe stato perfetto per una fotografia. Non per me, però, non per dipingere lui.

Ciò che volevo fosse chiaro a tutti, fin dal primo momento in cui la gente avesse posato gli occhi sulla tela, era che George era meraviglioso. Che era brillante, intelligente, che aveva una voce propria con cui gridare al mondo "Io sono qui". Dovevano comprendere che lui era più di un culetto stravaccato su un materasso sfatto, più di una barbona da talebano. Comunque fosse finita tra noi, nel bene o nel male, indipendentemente da quanto tempo fosse durata, avrei dovuto guardare quel disegno e dire "Questo è lui". L'intimo sguardo che gli stavo lanciando avrebbe dovuto rimanere impresso nei secoli dei secoli. Non avrebbe dovuto morire mai.

Cominciai a mescolare i colori su una tavolozza, senza nemmeno guardare quali assurde tonalità stessero saltando fuori, e quando intinsi il pennello continuai a fissare George. Non un punto in particolare, ma lui in generale.

Qualcosa di pacato per le pareti, un color bianco latte per le lenzuola. Rosso, molto rosso per la cicatrice perché quella era un ricordo. Il corpo divenne un tripudio di colori forti, accesi, violenti, che sembravano avere una personalità. Blu, azzurro, ocra, borgogna, verde pallido. E poi un color mogano, una macchia color mogano per i capelli, come se stessi aggredendo la tela e volessi bucarla con il pennello, come per dire che la sua testa era piena di idee.

Mi passai una mano su una guancia e mi sporcai la pelle ed i capelli sfuggiti allo chignon, ma non mi importava. Con la china ripassai le ombreggiature e i contorni, senza firmare.

Finito.

Dopo un tempo che mi parve interminabile, tesi le braccia per allontanare la tela dagli occhi e paragonarla a George.

Non voleva essere somigliante, anche se in effetti lo era abbastanza. Ciò che emergeva era uno scoppio di colore, come se avessi lanciato un pacco di tubetti di tempera contro un muro. Un colore, un'idea, un atteggiamento, un pensiero.

Ammettiamolo, George aveva un cervello incasinato di brutto, il tutto racchiuso in una bolla di raziocinio. Sembra un controsenso, ma se ci pensate non lo è. Insomma, quale persona sana di mente si sarebbe lanciata in un rapporto a tre senza battere ciglio? E al tempo stesso rimanendo lucida, per giunta. Solo George poteva farlo.

Anche il disegno era incasinato di brutto, ma aveva i suoi margini ben definiti che trattenevano l'esplosione. Non ero sicura che gli altri, guardandolo, avrebbero capito, ma io sì. Io sì, perché io lo conoscevo.

«George?».

«Uhm?».

«Ti puoi alzare, se vuoi».

The Art of HappinessDove le storie prendono vita. Scoprilo ora