13. Parlarti di me.

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«Non puoi cosa? Porca miseria Bree, parlagli e chiarisci questa situazione.» spalanco gli occhi fissando il cellulare. Quasi il fatto di esser stata ammaliata da lui, mi ha fatto dimenticare che ero in videochiamata con la mia migliore amica pochi secondi fa. Ora lei ha pronunciato quella frase che se sembra così potente da rimbombare in tutto il luogo in cui viviamo da qualche settimana a questa parte. Vorrei solo sprofondare.

«Ley devo andare.» la saluto frettolosamente. Le mie guance si dipingono di rosso, così tanto che mi sento andare a fuoco. Il ragazzo di fronte a me mi guarda negli occhi, riponendo la spesa all'interno degli scaffali della cucina in cui mi trovo. Mi gira intorno come un predatore, sfiorandomi la spalla più e più volte, mentre io resto ferma impalata come se fossi incapace di muovermi. Pochi minuti dopo, si sventola la mano destra nella direzione del viso, guardandomi divertito.

«Fa caldissimo oggi.» annuisco continuando a fissarlo, finché non fa una cosa che mi fa arrossire ancora di più, come se fossi in un forno a legna e le fiamme mi stessero bruciando tutta. È a torso nudo: il suo addome è perfettamente scolpito e i suoi bicipiti sono messi in mostra dalla posizione in cui si trova. Noto che indossa un bracciale nero di stoffa che prima non portava. Mi chiedo dove lo abbia trovato, ma non riesco a pronunciare una singola parola in merito.

Mi sento tremendamente in imbarazzo di fronte a lui. È come se mi sentissi nuda anche se indosso una tuta come in questo caso. Non mi ha mai fatto pesare il fatto di essere in carne come gli altri; è da quando ci siamo conosciuti che mi guarda sempre allo stesso modo. Un modo che non so spiegare, ma che contiene sempre un po' di protezione nei miei confronti, che non sembra affatto forzata. È una protezione che nessuno mi ha fatto sentire.

E all'improvviso, nel momento in cui i nostri occhi si incatenano ancora una volta, lasciando trasparire una chimica che incendierebbe addirittura la nostra abitazione lasciandoci intatti come se fossimo immuni, mi rendo conto che non conosco nulla di lui se non il suo nome. Il mistero che si cela attorno a questo ragazzo mi eccita e mi incuriosisce allo stesso tempo. Vorrei chiedergli tanto, troppo, ma allo stesso tempo non vorrei essere invadente.

Sono sempre stata del parere che se qualcuno voglia dirti qualcosa lo fa e basta, senza che qualcun altro glielo chieda. Così, ho sempre lasciato trasparire il fatto che non me ne fregasse minimamente, ma in realtà non è così. Preferisco aspettare i tempi altrui per parlarne, anziché assillare gli altri con domande che potrebbero essere involontariamente inopportune.

Come se non bastasse, io ed il ragazzo in questione abbiamo un rapporto altalenante, non certo come quello nelle storie d'amore in cui all'inizio è tutto perfetto e poi qualcosa tende a rovinarsi per un motivo in particolare. Il nostro, invece, è un rapporto che si scuce e ricuce, come la tela di Penelope quando i proci le chiesero di sposare uno di loro: lo cuciamo insieme quando siamo più vicini e lo disfacciamo quando stiamo lontani ed un muro si posiziona tra noi due. È sempre stato così e di certo non cambierà ora.

«Ti va di andare a fare un giro?» mi chiede e gli sorrido, distogliendo lo sguardo da lui. Forse è questa la libertà di cui mi parlava l'altra sera, forse la stiamo vivendo davvero. Già il fatto di uscire fuori da questa 'gabbia' mi fa sentire meglio, ma essere con lui mi fa sentire più sollevata e non ne so bene il motivo.

***

Pochi minuti dopo ci troviamo nel suo pick-up mentre nella radio passa la canzone 'A thousands years' di Christina Perri che sembra coronare perfettamente il momento. L'abitacolo è invaso dal suo profumo misto all'odore di detersivo alla vaniglia che usiamo per lavare i panni, emanato dalla sua canotta nera che ha cambiato pochi minuti prima che andassimo via.

Se fossimo stati in un'altra situazione, avrei detto che quella canzone passata alla radio era uno scherzo del destino, ma ora non so cosa pensare. Posa delicatamente una mano sul mio ginocchio sinistro e sento, per la terza volta nell'arco di un quarto d'ora, il mio viso andare a fuoco. Mi giro dal lato del finestrino evitando che possa vedermi, nascondendo le mie labbra col palmo della mano destra. Pochi secondi dopo, sento il suo sguardo su di me come una calamita e, sorridendo, mi toglie la mano da lì e abbassa i finestrini dell'auto con un pulsante automatico posto alla sua sinistra, per evitare di farmi sentire in imbarazzo, ma la cosa non aiuta.

«Dove andiamo?» rompo il silenzio diventato terribilmente insopportabile. Si è creato dal momento in cui è partita la canzone e, ancor di più, quando la sua mano mi ha coperto il ginocchio sinistro. Se ci fosse stata Leila nei sedili posteriori, mi avrebbe fatto delle occhiate complici e delle smorfie per prendermi in giro e rendere la situazione meno imbarazzante. Lui sorride in un modo che gli fa intravedere le piccole fossette e mi osserva con la coda dell'occhio tornando subito dopo a guardare la strada asfaltata dinanzi a sé.

«In un posto speciale.»

***
Qualche ora dopo arriviamo a Phoenix, posto che conosco come le mie tasche e dove ho vissuto praticamente tutta la vita. Ci troviamo fuori ad una casa dalle pareti bianche che non ho mai visto perché siamo in una delle parti più cupe della città, nel Glendale, nonostante, all'apparenza, non lo sembra affatto. Il quartiere è caratterizzato da villette a schiera tutte uguali esternamente, a differenza di questa, circondata da un giardino un po' più grande delle altre, anche se poco curato.

Lui sospira, guardando la dimora e stringendo forte i pugni al volante facendo impallidire le nocche, come se la vista della stessa gli provocasse rabbia. Scende dalla macchina senza darmene preavviso ed io lo imito, seguendo il suo gesto: il giardino non è molto curato.

Ciuffi d'erba secca ormai ingiallita contornano l'esterno della casa, sfiorando leggermente la porta d'ingresso. Due alberi si trovano sulla sinistra della casa bianca, alle cui estremità è legata un'amaca. Sembra una casa abbandonata, ma non riesco a comprendere pienamente il motivo per il quale siamo qui. Delicatamente, mi prende per mano facendomi sedere sull'amaca e sedendosi al mio fianco.

Restiamo in silenzio per un po': lui ha le mie mani nelle sue, tirate verso il suo busto. Le osserva per un po', squadrandole e studiandone ogni dettaglio come se volesse imprimerle nella sua mente. Le rigira più volte, finché lui non decide di parlare, o almeno ci prova. Schiude più volte le labbra, come se volesse parlare, ma la sua voce non si pronuncia. Non emette alcun suono. Deglutisce nuovamente, con un sorriso malinconico stampato sul viso e gli occhi che diventano così lucidi che possono notarsi da un chilometro di distanza.

Quasi mi si spezza il cuore a vederlo così. Gli occhi diventati un po' più tristi, guardano davanti a sé e in tutte le altre direzioni, studiando ogni singolo dettaglio della residenza, come se non dovesse vederla mai più. Non riesco a capirne ancora il motivo, ma subito dopo inizia a parlare, con la voce quasi tremante.

«Quando ero bambino vivevo qui. Una casa all'apparenza perfetta, se non fossi stato da solo.» abbassa lo sguardo guardando le sue nocche rosse, mentre accarezza la mia mano con un dito ruvido. «Fortunatamente è stato per pochi anni.» sussurra. Istintivamente, mi avvicino a lui, inclinando la testa verso la sua direzione.

«Dopo la morte di mamma e papà, ho vissuto in questa casa... avevo solo otto anni e fino all'età di dieci anni circa ho vissuto qui. Non è stato semplice per me, per niente. Ero solo un bambino cresciuto un po' troppo in fretta per circostanze che non dipendevano da me. Avevo tante cose da fare, sia in casa sia a scuola: dovevo fare la spesa, i compiti. Dovevo essere un bambino ed un genitore insieme. Quando i soldi che papà nascondeva abitualmente in casa per conservarli, sono terminati a causa delle mille cose da fare e di qualche sfizio che mi sono fatto passare con essi, notando anche com'erano snob i miei amici di classe con i vestiti firmati... ho iniziato a fare dei lavoretti...» si blocca per un secondo, poi riprende con uno sguardo che trasparisce vergogna. «Ero arrivato ad un punto in cui...mi servivano... soldi...per poter mangiare...» sussurra come se qualcuno potesse ascoltarlo, mentre io sussulto sapendo già dove vuole andare a parare. Lui mi lancia un'occhiata per notare la mia reazione ed io lo osservo irrigidirsi, chiedendomi come sia possibile che un bimbo di otto anni sia vissuto in una casa e ai vicini non gliene sia importato nulla. Fa dei cerchi con i polpastrelli rovinati sulla pelle del mio polso.

Mi guarda negli occhi, con gli stessi occhi che mi implorano di ascoltarlo disperatamente, come se avesse voglia di urlare a qualcuno tutto ciò che gli è capitato nella vita. Annuisco facendogli capire che io sono qui per lui. Sono qui per ascoltarlo. Sono qui per sostenerlo. Sono qui se vuole parlare o anche se vuole restare in silenzio.

Prende un respiro profondo, passandosi una mano tra i capelli castani e sfiorando il piercing al sopracciglio; poi pronuncia queste parole: «Bree, voglio farti capire che questa è una cosa davvero importante per me. Non ne ho mai parlato a nessuno. Oggi siamo qui perché voglio parlarti finalmente di me e, in questo momento, vorrei tu fossi l'unica ad essere al mio fianco.»

One step closer.Where stories live. Discover now