In me

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Da quel giorno non aveva fatto altro che pensare ai suoi occhi vermigli, e ogni volta che lo faceva una fitta dolorosa — ma pur sempre sopportabile — gli attraversava il petto.

Le battaglie con i Lacedemoni si facevano sempre più frequenti e i morti da seppellire e piangere sempre più numerosi, molti trafitti da frecce o spade nemiche, ma ancora di più uccisi dal morbo terribile che, da quando i Peloponnesiaci erano entrati nell'Attica, faceva strage di uomini e donne, vecchi e bambini senza distinzioni.

Ormai quasi ogni giorno si doveva recare fuori dalle Lunghe Mura per affrontare l'esercito nemico, impugnare la sua spada e fare strage di Spartani, assaporando il sapore del sangue che gli si spargeva sul volto e gioendo della fatica che attanagliava le sue membra dopo ogni scontro. Eppure la sua mente restava lontana, vagava sul mare e, come avesse un corpo, si immergeva nell'acqua gelida che, simile a una cura, lo purificava dall'immagine persistente di quello sguardo infuocato e dal sogno premonitore. Non sopportava più quell'uomo che continuava a perseguitarlo, non riusciva a non provare un moto di stizza quando, in ogni nemico che feriva, vedeva il suo volto feroce animato dalla furia di Ares, non aveva più la forza di contrastare le continue fitte che lo dilaniavano proprio sotto lo sterno, tanto da aver incominciato a cercarle per poter sentire nuovamente quel calore che, nonostante tutto, irradiavano.

Un giorno però anche le sue battaglie vennero interrotte: due degli uomini che avevano il compito di custodire i prigionieri di guerra erano morti, entrambi a causa di quella malattia che aveva riempito la loro pelle di piaghe purulente e nere, e il comandante l'aveva mandato a chiamare per sostituirli. Non sapeva quale fra gli dei l'avesse voluto, ma era certo che non fosse stato un semplice caso.

Il mattino seguente quindi, invece che dirigersi fuori dalle mura, si incamminò verso l'edificio e davanti vi trovò un altro soldato; quel ragazzino — perché non doveva aver visto più di quindici primavere - era magrolino e piuttosto basso, gli occhi erano enormi e così diretti da essere quasi fastidiosi da incrociare, un elmo semplice copriva una chioma quasi sicuramente del color del grano e un sorriso caldo illuminava il suo visino ancora imberbe. Appena lui entrò nel suo campo visivo, quell'esserino incominciò a spalancare sempre di più quegli occhi già grandi, tanto che Aruse fu costretto a voltare il viso di lato, sperando che l'altro smettesse in fretta di guardarlo come se avesse appena visto uno degli dei dell'Olimpo. Purtroppo, dopo essere arrivato proprio di fronte a lui, si costrinse a incrociare il suo sguardo e l'altro allora, prendendolo come un invito a parlare, disse:

«Buongiorno! Il mio nome è Naghise, figlio di Alypio. Ho concluso ieri l'efebia, dunque mi hanno incaricato di sostituire il valoroso Elikone e di tenere sotto sorveglianza i prigionieri di guerra».

Investito dal fiume di parole dell'altro, Aruse emise un semplice grugnito a metà tra l'infastidito dalla sua eccessiva parlantina e il sorpreso dal fatto che Naghise avesse quindi probabilmente un solo anno meno di lui.

Nonostante il suo fare scostante, l'altro continuò a parlargli per tutto il tragitto, raccontandogli le mille avventure che aveva vissuto con i suoi compagni durante la paidéia, come fosse ancora un bambino. Probabilmente non aveva ancora visto realmente nulla della guerra vera e propria, forse la sua efebia non era stata fatta sul campo di battaglia, ma altrove, dove i ragazzini avrebbero rischiato meno la vita.

La chiacchiera di Naghise si interruppe solo quando entrarono insieme nel lungo corridoio. Non aveva paura, ma aveva percepito che qualcosa si agitava nell'aria; non aveva però capito che quel qualcosa era l'animo di Aruse che, entrato di nuovo in quel luogo, aveva incominciato a fremere d'impazienza e, allo stesso tempo, dall'angoscia di vedere nuovamente quello spartano.

Quando l'ambiente si aprì di fronte a loro, rimasero stupefatti dalla quantità di prigionieri che erano stipati lì dentro: i loro corpi macilenti e sporchi erano gettati come fossero cadaveri gli uni sopra gli altri, un odore sgradevole e pungente di sudore aveva oramai invaso tutto lo stanzone, mischiandosi a

Ἐλευθερός - LiberoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora