Fui presa dal panico. La scarsa vita sociale di Jacques era un'ottima scusa per non fare cazzate nell'appartamento, ma se lui non c'era la casa era praticamente libera – il polacco non contava. Se lui non era in casa avrebbe potuto capitare qualunque cosa, stava a me resistere ed io non sono brava.

Dovevo fingere indifferenza, quando George fosse arrivato. Dovevo avere l'aria di una che pensa a tutto fuorché a lui. Già, mi sarebbe bastato starmene tranquilla davanti alla televisione mangiando Oreo. Adoro gli Oreo, non sarebbe stato difficile.

Suonò intorno alle undici e mezza. Avevo mangiato abbastanza biscotti per la mia copertura? Per sicurezza sparsi briciole sul tappeto davanti al divano.

Aprii il portone dal citofono e lasciai la porta dell'appartamento accostata, tornando a fiondarmi sul sofà, come se non mi importasse.

Tutto il mio bel piano studiato andò a puttane quando lo vidi stagliarsi sull'ingresso.

«Hey, Léo».

«Hey».

Era bellissimo. Non nel modo in cui può esserlo un divo del cinema, ma era così carino nel suo pullover color senape e con i suoi pantaloni a sigaretta. I capelli erano agitati come al solito, ma il suo sorriso ed i suoi occhioni così tranquilli e fiduciosi mi lasciarono senza fiato.

Gli sorrisi: non potei impedirmelo.

Se non altro avevo un bell'aspetto, ero ancora vestita per la cena, con i miei jeans preferiti ed il mio maglioncino di Benetton. Chissà perché, ma ora che lo avevo davanti ero più intenzionata ad apparire attraente che indifferente.

«Vieni, siediti».

George entrò e con mia sorpresa si sfilò le scarpe, lasciandole vicine all'ingresso. Nessuno lo faceva, a parte noi coinquilini, e rimasi stupita da quel gesto educato. Very British.

Crollò sul divano accanto a me e lanciò un'occhiata alla televisione. «Oddio, questo film mi fa schifo».

«Anche a me», mormorai, «ma non c'era altro».

«Non sei uscita?».

 Non volevo dire che Paul aveva vomitato la cena cinese, mi sarebbe sembrato di sputtanarlo e non volevo. «No», mentii, «non avevo voglia».

«Volevo scusarmi per l'altra sera».

Annuii, desiderosa che mettesse quei dieci o quindici metri in più tra noi, su quel divano troppo piccolo. «Me lo hai detto. Non preoccuparti, non importa. Anzi, sono io che mi scuso».

«Per cosa?».

«Paul», risposi. «Si è comportato come un imbecille».

Si strinse nelle spalle. «Era solo preoccupato che potessi provarci con te».

Non riuscii a trattenermi. «E non ci stavi provando?».

Mi fissò a lungo, con quel mezzo sorriso sulla faccia, a metà tra l'ironico e il cortese. Non riuscivo a capire se mi stesse sfottendo o se fosse solo la sua espressione abituale. Non disse nulla per un bel po' e sembrava percepire il mio disagio. Io, dal canto mio, percepivo le sue labbra morbide.

«Certo che ci stavo provando», disse infine.

«Lo sapevo!», esclamai.

«Non ci vuole una scienza per capirlo».

Ovviamente no, ma cos'altro potevo dire? Non volevo chiedergli di non farlo, mi piaceva troppo sentirmi così desiderata, e poi era così favoloso che George mi volesse.

«Dovrei chiederti di uscire da qui», mormorai sovrappensiero.

«Perché non lo fai?», mi sfidò. Con due dita prese una ciocca dei miei capelli e ironizzò: «Che bel colore, mi domando chi te lo abbia suggerito».

The Art of HappinessWhere stories live. Discover now