«Oh, cazzo», lo udii mormorare. «Scusami, arrivo».

Scappò alla velocità della luce in direzione del bagno. Io lo guardai con gli occhi spalancati, non ebbi nemmeno il tempo di domandarmi che problema avesse. Quando alcuni degli avventori, dopo averlo fissato, spostarono lo sguardo su di me arrossii violentemente.

Guardai il suo piatto, vuoto per metà. Sembrava innocuo, i piccoli gamberetti che sembravano sdraiati nel letto di riso. Fu allora che mi venne il dubbio. Presi con le mie bacchette una manciata di cibo e lo assaporai lentamente, pronta a cogliere la minima sfumatura sgradita.

«Merda, è alla soia», mormorai.

Paul era terribilmente intollerante alla soia. Non era solo un po' allergico, la soia era la sua nemesi alimentare. Capii che in bagno stava probabilmente vomitando anche l'anima.

Rimisi il cellulare nella tasca della mia giacca. Paul non sarebbe stato in grado di fare proprio niente, quella sera. Mi domandai se sarebbe riuscito a fare le scale del suo condominio senza aiuto.

Certo, avrei anche potuto dire a George una bugia. Tuttavia non lo feci e quando Paul ritornò mi prodigai per farlo sentire a suo agio. Insistetti per pagare la cena, guidai io la sua macchina fino a casa sua e lo accompagnai di sopra, dove si sentì male di nuovo. Rifiutò di farmi stare lì tutta la notte, dicendomi di andare a casa, tanto lui sarebbe presto stato meglio. Avrei dovuto insistere; non feci nulla del genere.

Presi la metro, arrivai a Bercy e raggiunsi la palazzina dove vivevo. Guardai l'ora, sperando fosse troppo tardi perché George venisse da me: le dieci di sera. Di sabato. Decisamente era ancora presto.

 ***

Si fecero le undici. Io stavo guardando una replica di Family Man su Canal+Cinéma. Non c'era nessuno in casa a parte me e Jacques: Madeleine era fuori con le sue amiche e il polacco era così silenzioso, nella sua camera da letto, che era come se non ci fosse.

Passando alle spalle del divano, Jacques smise di frizionarsi i capelli umidi della doccia con l'asciugamano e indicò la porta del nostro coinquilino.

«Tu lo hai mai visto uscire per lavarsi?».

Scossi il capo mentre in tv Nicholas Cage si svegliava nella vita parallela. «No, io no».

«Strano tipo», commentò lui. Sparì in camera sua per riemergerne un paio di minuti dopo, vestito e profumato.

Sollevai lo sguardo mentre si stava allacciando le scarpe. «Oddio, stai uscendo?», domandai sgomenta.

Si bloccò a metà di un nodo. «Non dovrei?», domandò. «Ho dimenticato che facevamo qualcosa insieme?».

«No, figurati» affermai, «ma sta arrivando George».

«Chi?».

 «Il cucciolo di foca».

«Stai scherzando».

Gli rivolsi l'occhiata più supplice che riuscii a mettere insieme. «Ti prego, non puoi lasciarmi sola con lui!».

«Ma sei stupida?», esclamò con una grassa risata. «Dio, Léo, perché ti metti nei casini in questo modo?».

«Ti sto supplicando, Jacques!», pigolai. «Non puoi lasciarmi sola, ti prego!».

«Mi dispiace», borbottò afferrando la sciarpa. «Ho appuntamento con una studentessa erasmus molto disponibile».

«Dai, me lo devi!».

«E perché? Sei tu che ti sei messa nella merda, non ti devo proprio niente». Imboccò la porta di casa, gridando: «Scopatelo e fammi sapere se è bravo».

The Art of HappinessWhere stories live. Discover now