O me o me

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D: “E TU ME LO DICI TRANQUILLAMENTE, sei una puttana Emanuele, ecco cosa”

A quelle parole non seppi che cosa dire. Avevo deciso di dirglielo per rispetto della nostra relazione, per evitare segreti che bene o male, prima o poi sarebbero usciti.

D : “Rispondimi cazzo, hai un minimo di rispetto per me? Ti ricordi cosa cazzo ti ha fatto?”

L: “Non..non volevo...per favore perdonami”

Sussurrai praticamente in lacrime. Stava continuando a urlarmi addosso, da quasi un’ora e non smetteva.

D: “Perdonarti? Potrei anche farlo ma a patto che tu non li veda più, che tu non li frequenti più. Tanto non ne vale la pena no? Poi una sera con loro e te ne sei riuscito con sta storia delle pillole e le solite stronzate che ti avevano inculcato.”

L: “Io...va bene...sì”

E non seppi nemmeno perchè accettai. Probabilmente per far smettere quelle urla atroci, per non vederlo più arrabbiato e finalmente per potermene tornare in camera. Quella notte avrebbe lavorato e io sarei rimasto solo. Lo vidi sorridere, un sorriso che però non mi sembrava nemmeno quello del mio ragazzo, ma quello di un pazzo che sapeva di avere la sua vittima in gabbia. 

Il problema? Non me ne rendevo nemmeno conto.

Quando quella sera se ne andò a lavorare, io mi misi nel letto e, semplicemente, ci rimasi dentro. Non avevo il telefono, né’ il computer, ero steso a fissare fuori dalla finestra.

Mi sentivo schiacciato, come se le mie nuvole fossero ormai tutte attorno e io non avessi più modo di uscirci. Sentivo i sensi di colpa per cosa avevo combinato, i rimorsi per non essere rimasto con Tancredi e la paura che i ragazzi non capissero e mi abbandonassero.

Sentivo di nuovo il grigio, come il cielo fuori dalla mia finestra. Non era nemmeno interessante, solo attraente, accogliente. Mi svuotava come aveva già fatto in passato e non mi faceva sentire tutto quel dolore, tutta quella tristezza. 

Essere vuoto.

Quello era quello che ormai ero tornato a essere.

Passavo le mie giornate così: steso a guardare fuori dai vetri chiari della finestra. Davide nemmeno se ne rendeva conto: ero la sua bambola da usare quando aveva bisogno, anche perchè non riceveva altre reazioni. 

Era come una routine: mi svegliavo, rimanevo a letto, mi alzavo per cucinare, tornavo a letto, lui veniva da me e poi se ne spariva per il lavoro. Mi sforzavo di fare delle storie per mantenere un’aria di normalità, ma nulla di più.

Ero così vuoto che spesso dimenticavo di lavarmi, di cambiarmi o anche solo di uscire sul balcone per sentire l’aria sulla pelle. 

Vivevo il Mondo da steso e guardandolo attraverso quei vetri. 

L’unica cosa a cui pensavo era il fatto che i colori erano così lontani e che, quella volta, non avevo gli occhi di Tancredi. Gli occhi del mio verde speranza.

Avevo provato a ricordarli, ma erano sfocati, non riuscivo più a distinguerli con nitidezza. Era così estenuante che avevo smesso di farlo e avevo lasciato che si ingrigissero, come tutto il resto. 

Silenzio.

Ecco cosa volevo nella mia vita, nulla di più.

Quando quel giorno sentii suonare il campanello, non mi alzai subito: non volevo vedere nessuno e Davide aveva le chiavi. Continui a sentire quel rumore incessante e, allora, dopo un tempo infinito, decisi di alzarmi dal letto. Le gambe mi facevano male, la testa pure e infilarmi una felpa fu uno sforzo enorme. Mi avviai alla porta e semplicemente feci scattare il portone sotto e aprii: probabilmente era qualche corriere che come al solito doveva lasciare qualcosa a Davide.

Futuro per i Tankele//Part ThreeWhere stories live. Discover now