CAPITOLO#11

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Il Natale è quel passaggio obbligato che ti costringe a tornare sui tuoi passi, fino a casa.

A guardare nel pozzo fondo delle tue origini.

A ricordarti che, ti piaccia o meno, il luogo da cui provieni spesso è anche la tua destinazione.

Anche se hai provato a negarlo per anni, e ti rifiuti con tutta l'anima di essere figlia di un rampante manager milanese con i capelli grigi perennemente laccati all'indietro e di una modella danese che di profondo ha solo i suoi meravigliosi occhi blu. Una coppia in stile bulli e pupe che ha retto il matrimonio per miracolo fino alla mia preadolescenza. Facevo le Medie quando Katrinka se n'è andata senza farsi praticamente più viva.

Al posto che deprimersi e andare in terapia, mio padre ha iniziato da subito a portare a casa donne bellissime dall'aria triste, spesso straniere. Pur di non dovermi intrattenere con loro, io ho finto di aver dimenticato l'inglese, unica lingua parlata da mia madre. E il manager mi ha sempre retto il gioco, per nulla interessato che la sua mocciosa importunasse le sue muse.

Torino è un capoluogo bucolico e graffiante, pieno di verde e di possibilità. È il giusto mezzo tra la nevrosi di una grande città e la pace della campagna. Perciò la lascio con malinconia, mentre mi avvio a Porta Nuova per prendere il Regionale Veloce che mi porterà a Milano.

Mi sento stanca ancora prima di partire.

So già che sarà un Natale assurdo più degli altri anni.

Mio padre non sta con nessuna, in questo momento, e nemmeno mia madre, così hanno pensato bene di passare le vacanze tutti insieme, noi tre come una vera famiglia. Io sotto sotto sospetto che non abbiano mai smesso di amarsi (o di usarsi) e di tanto in tanto rispolverano insieme le vecchie foto per dirsi a vicenda di aver fatto qualcosa di buono insieme: me.

Che poi essere l'unica cosa buona che unisce due persone che viaggiano parallele mi fa sentire come Atlante che si trasporta il mondo sulla schiena. E mica pesa come un panettone.

Quando scendo dal treno noto subito che mio padre si è messo troppo profumo e la cosa mi fa storcere il naso perché lo associo inevitabilmente a una situazione incresciosa ricorrente: lui che fa il piacione con una dea neo-maggiorenne per tentare di fare colpo con l'odore dei soldi che ha addosso.

Poco più indietro c'è mia madre: di una bellezza diafana ma sciupata. Forse la sua aria sbattuta è colpa della solitudine oppure non ha ancora prenotato il suo ritocchino annuale dal chirurgo plastico.

Da piccola speravo di scoprire che mi avessero adottata, ma somiglio troppo a entrambi e il mio aspetto fisico è il frutto di una ricombinazione genetica dei loro cromosomi che parla da sola.

Ci salutiamo con nordica freddezza e io mi ingobbisco mentre camminiamo verso la macchina.

«Raddrizza la schiena, Diana» mi dice mia madre in inglese e pronuncia il mio nome "Daiana" come la Dirty di Michael Jackson.

Sbuffo come quando ero un'adolescente ma mi sforzo di accontentarla per non cominciare da subito a spandere un clima da Cortina di Ferro. 

Mio padre si è comprato da poco una Maserati con motore Ferrari e prima di partire sgasa a più riprese per far sentire a Katrinka il ruggito della sua ultima conquista.

Il parcheggio coperto si sta sicuramente riempiendo della puzza del suo gas di scappamento e io cerco di sprofondare nel sedile posteriore per non dover incontrare gli sguardi contrariati dei passanti che si affrettano verso le loro auto.

Giorgio Ventimiglia non viene nemmeno sfiorato dal pensiero che possano esserci altri esseri umani oltre a lui e si bea della risata argentina di mia madre che non ha mai smesso di subire il fascino di portafogli gonfi che fanno apparire meraviglie come per magia.

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