CAPITOLO#6

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Il parquet di legno di ciliegio è disposto a lisca di pesce e scricchiola. Quando passano i bus, giù in strada, tremano i vetri. Non siamo nella mansarda di Joe ma nell'appartamento di tre studenti di Architettura al primo piano di un palazzo che affaccia direttamente su via Madama Cristina. I soffitti sono altissimi e la stanza ampia è invasa dal fumo. Le pareti bianche sono state dipinte a quadretti rossi e grigi fino a metà, come nelle scuole elementari. Nel minuscolo balcone stanno assiepati degli spiriti liberi che preferiscono fumare fuori, nonostante nemmeno dentro si faccia altro. L'atmosfera che si respira è quella di una gita scolastica. La casa sembra la stanza alpha dei ragazzi dell'ultimo anno, quella in cui si infilavano abusivamente tutti gli alunni delle classi inferiori chi per bere alcool o fumare narghilè, chi nella speranza di pomiciare con quelli più grandi.

Anche qua c'è un narghilè gigante e bruciano tabacco aromatizzato alla vaniglia e alla fragola, molto buono. Alessio e Giuliano hanno improvvisato un concertino e stanno suonando i loro pezzi, sempre molto carini e orecchiabili. Alcune canzoni, in realtà, sono proprio belle e mi fanno salire le lacrime agli occhi.

Joe è uno di quegli spiriti liberi sul balcone, mentre io mi aggiro qua e là chiacchierando un po' con tutti e smezzando sigarette con chi capita.

Come siamo finiti a questa festa?

Joe è arrivato per ultimo al portone, a causa della mia slealtà, e quando mi ha raggiunta io mi sono coperta la bocca mimando uno sbadiglio, come a dirgli che ci aveva messo una vita. A quel punto, lui, pur senza fiato e con i capelli sconvolti dalla corsa, mi ha afferrata per le gambe, mi ha caricata in spalla e ha cominciato a salire le scale, ignorando le mie sonore proteste per quel trattamento ingiusto. Credevo avrebbe fatto fatica, con tutte le sigarette che fuma, invece siamo arrivati fino a metà strada. Poi lui si è accasciato su un pianerottolo per il troppo ridere e mi ha fatto rotolare sul pavimento. Siamo rimasti per terra a sghignazzare finché non abbiamo visto la testa di Giuliano sporgersi dalla ringhiera dell'ultimo piano e guardare giù, nella tromba delle scale, noi due che davamo spettacolo. Lui e Alessio hanno cominciato a scendere le scale suonando la fisarmonica e cantando la Vie en rose di Édith Piaf.

Ed è stato lì che ci hanno invitati ad andare con loro ad una festa che si teneva pochi isolati più in là. E così eccomi qua, a cercare di fare quattro chiacchiere con quelli che ho scoperto essere alcuni tra gli organizzatori del festival musicale "Sotto il cielo di Fred", dedicato al cantautore torinese degli anni '50 Fred Buscaglione. Al "Premio Buscaglione" - concorso musicale per cantautori e band emergenti – partecipano anche Alessio e Giuliano che questa sera si esibiscono durante una tappa della "Notte rossa Barbera" – un percorso in varie piole e osterie dove si mangiano prodotti del territorio bevendo Barbera e ascoltando esibizioni musicali itineranti; approfondimenti, tornei di bocce e briscola – che si terrà al Quadrilatero, in un locale che si chiama Officine Bohémien.

Verso le dieci ci dirigiamo lì, salendo su un bus vuoto fatta eccezione per una coppia di barboni che beve Tavernello nel tetrapak. Io forse ho esagerato con la sambuca perché il bus mi sembra una giostra rotante. Scendiamo vicino a via Po e quando arriviamo in piazza Castello è ancora presto, così Alessio e Giuliano si mettono a suonare in un angolo per "scaldarsi le dita", dicono. Qualcuno mi passa un cappello e io mi metto a fare la questua per ricevere delle monetine, pensando che Torino è anche questo. Artisti di strada, giocoleria, circo.

Rovescio la testa all'indietro e, oltre lo sfarzo luminoso del soffitto affrescato di Palazzo Madama, visibile dal basso attraverso le immense vetrate illuminate da un lampadario di cristallo grande quanto un pianeta, il cielo di Fred è nero petrolio.

Quando ci avviamo verso l'interno del Quadrilatero abbiamo raccolto qualche spicciolo che decidiamo di comune accordo di berci alla salute del nostro duo di musicisti provetti.

Svoltiamo in una via acciottolata, costeggiata da palazzi liberty con i balconcini pieni di edera che si arrampica per un buon tratto lungo il muro. L'aria è dolce e le porte delle Officine Bohémien sono aperte. Sul palco si sta esibendo una banda scatenata e la gente fuori dal locale balla con energia, mescolandosi a quella che affolla l'interno. Noi andiamo al bancone e ordiniamo un bicchiere di Barbera, ma quando poso il calice vuoto, Joe mi afferra una mano e mi tira a sé, trascinandomi a ballare per strada, in mezzo agli altri. Non è che sappia proprio ballare, ma ha un'energia tutta sua e si butta nella mischia senza vergogna. Twist, Fox Trot, Tip Tap, li improvvisiamo tutti. Lui però non smette di tenermi stretta a sé e non mi lascia mai veramente andare. Il suo corpo mi è stranamente familiare, come se non fosse la prima volta che lo stringo. Ha qualcosa di primordiale che lo rende vero, carne e ossa, sudore e sangue. E anche muscoli e vigore. Una fiamma sconosciuta lo divora da dentro. Il suo impeto è pervaso di un ottimismo contagioso, come se il solo fatto di essere vivi costituisca una ragione sufficiente per sentirsi invincibili. Accanto a lui mi sento più ubriaca di quanto sia in realtà.

Balliamo sotto il cielo di Fred e Mineo è Buscaglione, Torino è New York, le ciminiere del borgh del füm sono quelle del Queens. Fred ha fatto la guerra, e come Joe ha conosciuto l'America.

Non so che ore siano quando ci incamminiamo verso casa mia.

A forza di girare di notte le cose cambiano colore, le persone e i nomi si confondono in una fotografia sfocata. L'esule di Via Bava cammina per la sua Vanchiglia, che poi è anche la mia. Un tempo il quartiere operaio, oggi quello universitario. Esalazioni di gelo e di nebbia che salgono dai fiumi inumidiscono il pastrano, qualche profilo sommerso scantona nelle vie. Alessio e Giuliano continuano ad arpeggiare sulla chitarra mentre camminiamo, finché non vediamo due volanti della polizia con le sirene accese parcheggiate davanti al portone di fronte al palazzo dove abita Leo. Il portone è aperto e gli agenti stanno facendo alcune domande a delle persone lì intorno.

Già da qualche metro di distanza, riconosco la donna che aveva cercato di placare la follia dell'uomo delle biciclette, qualche sera fa. Accanto a lei ci sono suo figlio, un ragazzo che assomiglia a Leo e Ahmed, in preda ad un altro attacco di rabbia incontrollata. Due agenti lo tengono fermo mentre un medico della Croce Rossa controlla che madre e figlio non siano feriti.

Giuliano e Alessio scambiano lo sconosciuto per il nostro amico e si avvicinano per vedere come sta, prima di accorgersi che non si tratta affatto di lui. Io intanto chiedo delucidazioni ai vicini di casa. Hanno chiamato loro la polizia perché sentivano delle grida infernali provenire dall'appartamento di Romina Malva, che a quanto pare è l'ex ragazza di Ahmed. Il bambino è figlio loro, ma ormai i due hanno rotto e lei ha un nuovo ragazzo, che è quello che assomiglia tanto a Leo.

Ahmed viene arrestato e la volante si allontana. Nel passare accanto al nostro gruppetto lui ha il viso coperto dal grande cappuccio del suo parka, ma tiene una mano incollata al finestrino di cui ci mostra le tre dita che formano una faccia cornuta, stilizzata.

Io rabbrividisco e mi stringo nel mio cappotto color Barbera.

Quando l'auto sparisce dietro l'angolo, tiro un sospiro di sollievo.

Joe mi vede scossa, e per confortarmi mi passa un braccio intorno alle spalle e mi tira a sé, baciandomi sulla testa.

«È tutto ok» mi dice. «Nessuno si è fatto male.»

Quel gesto mi fa salire un groppo in gola. Gli passo un braccio intorno alla vita e torniamo verso casa senza fretta e in silenzio, godendoci il calore di quella insolita e serena intimità che abbiamo scoperto di condividere, senza che nessuno lo avesse programmato.

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