Prologo - Calibro 38

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«Torneranno gli innocenti tutti pieni di compassione

Per gli errori dei potenti fatti senza esitazione

Senza lividi sui volti, come un taglio sopra al cuore

Prendi un ago e siamo pronti, siamo pronti a ricucire...»

La sala convegni in cui si trovava il centro di ascolto per i veterani, quella sera, sembrava più gremita del solito. Seduta su una delle sedie che erano state disposte in cerchio in quella sala gremita di bandiere a stelle e strisce, ascoltavo attentamente la storia delle persone che stavano cercando di rielaborare lutti, traumi. Persone mutilate dalle guerre che il nostro paese aveva deciso di intraprendere o persone che apparivano perfettamente in forma ma talmente traumatizzate da non riuscire a compiere nemmeno un passo fuori casa.

Persone talmente traumatizzate da non essere riuscite a trovare gioia nell'aver rivisto i propri figli, le loro mogli, i loro mariti dopo molto tempo. Io non sapevo a quale categoria di soggetti appartenessi. Ero lì perché mia sorella continuava a ripetermi che mi avrebbe fatto bene, che vedere gente messa peggio di me o come me, mi avrebbe confortata, che avrei potuto trovare qualcuno che veramente poteva capire le mie sofferenze in quel luogo pieno di dolore. Che a ventitré anni io mi meritavo di vivere ancora, di dormire la notte senza sentire l'odore del sangue, della sabbia, dei corpi bruciati dei miei compagni.

Come se fosse possibile.

«Qualcun altro vuole raccontare la sua storia, oggi?» La voce di John quasi riecheggiava nella stanza, ora silenziosa dopo le parole toccanti di Karen, senza una gamba da ormai dieci anni, che era riuscita a diventare madre nonostante le difficoltà, che aveva trovato un marito pronto ad ascoltarla, paziente e pronto ad asciugarle la fronte dal sudore dopo un incubo agghiacciante. Ero contenta per lei, lei era riuscita a riprendere in mano la sua vita e partecipava a quegli incontri per ricordare a tutti che non eravamo solo dei soldati, un nome su una piastrina arrugginita dal nostro sudore, graffiata dalla sabbia e annerita dalla polvere da sparo.

Eppure io faticavo a non sentirmi così, la mia piastrina recitava Diana Denvers, eppure io non mi ricordavo un solo giorno dopo quel giorno in cui io mi ero sentita lei. La ragazza piena di speranza e coraggio, energica ed entusiasta di affrontare ogni allenamento sfiancante se quello le sarebbe servito ad aiutare il suo paese. Di quella ragazza ormai non vi era più traccia, solo l'aspetto, e pure quello portava alcuni segni di una guerra che non ero stata io a volere, ma che avevo voluto ugualmente affrontare.

Nessuno accolse l'invito di John e ci alzammo in piedi, pronti ad andarcene. Almeno, io ero pronta ad andarmene. Altri sarebbero rimasti lì a bere caffè e a mangiare ciambelle come se pochi minuti prima non avessero parlato di corpi mutilati e farmaci per lo stress post traumatico.

Uscii dalla sala e poi dall'edificio. Quella sera, Dayton, la città dell'Ohio in cui ero cresciuta era molto silenziosa, un silenzio pacifico rispetto alle parole che avevo sentito nelle due ore precedenti. Continuavo a camminare tranquillamente verso il piccolo appartamento che avevo preso, nonostante mia madre e mia sorella avessero insistito per farmi stare da una di loro, ma dopo cinque anni passati senza vederle se non in poche occasioni che mi erano state concesse, non sarei mai riuscita a passare più di tre ore di fila in loro presenza.

Mio papà era morto molto tempo prima, per le stesse ragioni che avevano portato via i miei commilitoni, e il fatto che io avessi deciso di intraprendere la sua stessa strada aveva destato molte lamentele da parte di mia madre e un radicale allontanamento da parte mia, nonostante la distanza tra me e quella donna, la considerassi già incolmabile da molto tempo prima.

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