Stendere una tesi di circa un centinaio di pagine sul ruolo che l'arte ha avuto nel corso delle guerre in epoca moderna mi sembrava un buon biglietto da visita.

Smisi di vedere gente: Marie era reclusa tanto quanto me, presa com'era dal suo lavoro sulle avanguardie russe, vidi Paul molto poco ed evitai categoricamente Max, che probabilmente faceva da accompagnatore a George. In un clima di concentrazione come quello non mi fu troppo difficile accantonare l'argomento "youtuber sexy".

Passavo da una biblioteca all'altra, da un museo all'altro, sfogliando libri e consultando vecchie riviste divulgative. Ci andavo a nozze, avrei trascorso ogni minuto della mia vita a fare quel tipo di lavoro, mi divertivo da morire.

E avrei potuto continuare a divertirmi se Paul non avesse voluto intromettersi.

Venne da me una sera, con la scusa di voler mangiare una pizza insieme approfittando dell'assenza di altre forme di vita in casa. Io non ero molto d'accordo, stavo studiando una monografia interessante sui dipinti di Delacroix, ma lui mi piombò in camera ugualmente.

 «Coraggio, professoressa», mi apostrofò con ironia. «Non hai fame?».

Aveva tentato di essere spiritoso, ma mi infastidì. «Paul, non mi va. Tu fai come fossi a casa tua, ma credo che continuerò a studiare».

 «Dai, amore, prenditi una pausa», disse avvicinandosi. Mi passò le mani sulle spalle; io le agitai, cercando di scacciarlo, ma lui lo interpretò come un invito a continuare. «Posso farti un massaggio, se vuoi».

 «No, grazie».

 Stavo facendo uno sforzo sovrumano per non insultarlo. Non lo volevo tra i piedi, non volevo le sue dannate mani addosso e volevo studiare: era chiedere troppo? Evidentemente sì, perché Paul continuò a massaggiarmi le spalle ignorando qualsiasi protesta il mio corpo gli presentasse.

 Mi resi conto che stavo rileggendo la stessa riga per la quinta volta. Chiusi il libro di scatto, nervosa. «Bene!», esclamai. «Mangiamo, allora».

 Paul sembrava non notare il mio stato d'animo: era stupido, forse? Tutto il mio fisico stava dimostrando il mio scarso apprezzamento per i suoi sforzi. Mentre telefonava ad una pizzeria per ordinare rimasi seduta al tavolo della cucina, in silenzio, con una sigaretta in bocca per non parlare. Perfino l'idea della merdosa pizza francese mi faceva rivoltare lo stomaco.

Mi sentivo in colpa: lui era così carino, faceva di tutto per distrarmi dallo studio e si sforzava di essere allegro. Perché non ridevo alle sue battute? Beh, prima di tutto perché erano battute del cazzo: non avrebbero fatto ridere nessuno, nemmeno un idiota. Paul non era capace di far ridere la gente e non riuscivo a capire come mai si ostinasse a provarci.

«...e allora gli ho detto che poteva farsi fottere», annunciò.

Sbattei le palpebre, accorgendomi solo in quel momento che aveva posato la cornetta e che stava parlando con me. Non avevo idea di cosa avesse detto, non una parola mi era penetrata nel cervello. Annuii vigorosamente. «E poi?», domandai, restando sul vago.

 «E poi mi hanno dato ragione».

«Come sempre», ironizzai. Lui aveva sempre ragione e gli altri sempre torto.

Paul aggrottò le sue sopracciglia scure. «Che intendi?».

Abbassai lo sguardo. Ero maledettamente ingiusta con lui e lo sapevo. Mi passai la lingua sulle labbra, soffiando fumo dalla bocca. «Scusami, Paul», mormorai. «Sono molto stanca, non è mia intenzione essere cattiva».

 Mi sorrise con fare comprensivo: la cosa peggiore che potesse fare. «Vedi? Devi riposarti».

Odiavo quel suo atteggiamento di merda. Considerava il mio corso di laurea inutile come un fiammifero usato e non si dava pena per nasconderlo. Paul era tranquillo a riguardo, come se fosse ovvio che quella per la storia dell'arte fosse una specie di passione temporanea. Non lo era, non lo era affatto e lui trattava il mio studio con leggerezza, in un tono tanto sincero quanto fastidioso.

The Art of HappinessWhere stories live. Discover now