XVII

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1° dicembre 1469

«Piero sta morendo, non si può esitare oltre.»

«Lo so, zio.»

Lorenzo aveva lo sguardo basso, le mani giunte e la voce stanca. Il crepitio del fuoco lo pizzicava, il suo calore lo percuoteva in viso, sulla guancia destra, quella rivolta al camino, ma faceva finta di nulla; o forse, davvero, non percepiva alcunché.

Lo zio che gli parlava, seduto di fronte a lui, era Tommaso Soderini. Tommaso Soderini era un uomo assai maturo, sessantacinque anni sulle spalle, innumerevoli incarichi ricoperti con successo e una rigorosa, sebbene non disinteressata, fedeltà al cognato Piero de Medici. Aveva sposato Dianora Tornabuoni, sorella di Lucrezia, e, per quanto ella fosse perita sotto l'infierire della malaria presso Pisa e lui avesse contratto nuove nozze, restava un famigliare di casa Medici, un personaggio di tutto rispetto e di grande autorevolezza.

«Dunque comprendi che è giunto il momento di radunare la brigata e la clientela per assicurarci del loro appoggio.»

«Sì», annuì esausto Lorenzo, quindi tese la mano a un tavolino e raccolse una coppa quasi con riluttanza, la portò alle labbra e sorseggiò un poco di vino. Tommaso lo scrutò; l'impazienza viziava il suo sguardo, conferendogli un aspetto di biasimo e di rimprovero. Perciò il nipote raramente contraccambiava le sue occhiate.

«Oggi, al più tardi domani. Anzi, domani sarà meglio. Oggi manderò messi ad avvisare ognuno. Ho affittato una sala nel vicolo dei macellai, dove nessuno verrà a ficcanasare. Non è necessario che tu venga; tu resterai qui, accanto a tuo padre, come si conviene.»

«Non ho mai pensato di lasciare Careggi prima che...» replicò, irritato dal tono di comando che gli veniva usato, a suo parere, ingiustamente. Nonostante il dolore lo affliggesse, sentiva di essere perfettamente in grado di condurre i propri affari; ma lo zio Tommaso aveva un peso diverso dal suo tra i sostenitori della famiglia, perciò era opportuno tenerselo stretto e sorvegliarlo senza che se ne avvedesse. Com'era da immaginare, Tommaso lavorava prima di tutto per se stesso e il fatto che avesse affittato la sala della riunione senza consultare né Piero né suo figlio tradiva un intento egoistico dietro al pretesto di voler essere d'aiuto a una difficile successione. Lorenzo, perciò, decise di sbrigarsi rapidamente, e concluse: «Domani sera andrà bene. Voglio essere informato dell'esito dell'assemblea, non m'importa se sarà notte fonda. Mandate un messo e, prima di proseguire, attendete la mia risposta».

«Sarà fatto; bada a tua madre, per ora. E manda per me quando sarà il momento.»

Non c'era altro da dire e nessuna delle due parti aveva intenzione di dilungarsi in chiacchere inutili; la conversazione era stata essenziale, senza fronzoli, come si addiceva al contesto funereo che aleggiava per tutta la villa di Careggi. Tommaso si alzò, prese il mantello e se lo mise addosso con un movimento lento e solenne, poi uscì seguito da alcuni uomini di sua fiducia.

Lorenzo attese qualche istante, giusto per essere certo di non provocare equivoci spiacevoli, quindi guardò un servo e gli disse: «Fallo entrare».

All'ordine seguì in fretta l'esecuzione: la porta si aprì nuovamente e, questa volta, entrò un uomo più o meno coetaneo di quello appena partito, ma con tutt'altra grinta. Era una persona affabile, di solito, e la circostanza gli ombrava un po' il viso. Lorenzo, vedendolo così, sentì rinnovarsi il groppo in gola che lo coglieva ogni qual volta entrava nella camera dove il padre languiva.

«Messer Domenico,» lo accolse alzandosi, «vi prego, sedete qui.»

Forse lo commuoveva tanto il fatto che Domenico Martelli fosse il padre del suo carissimo Braccio; ma non era per questa ragione che l'aveva convocato in fretta e furia, cosa di cui si scusò immediatamente. «Mio zio Tommaso», spiegò, «prepara un'assemblea dei nostri partigiani. È sicuro che vi vorrà presente. Ebbene, voglio che vi andiate e parliate per me.»

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